di Pietro Pinter – Quando la propaganda diventa inconciliabile con la realtà, una resa dei conti prima o poi arriva. La testa di qualcuno – sia esso il vero responsabile o un capro espiatorio – deve rotolare davanti all’opinione pubblica, per permettere di “ricominciare da capo” con un’immagine ripulita. Far saltare teste però significa anche minare gli equilibri politici, cosa particolarmente pericolosa in un Paese in guerra. È successo in Russia l’anno scorso, quando i vertici militari hanno scontato il fallimento nel Nord dell’Ucraina, a Kharkov e sulla riva destra del Dnepr, della “operazione militare speciale”, venendo esautorati dal “partito della guerra” guidato da Prigozhin, con gli esiti noti a tutti. Adesso sta succedendo a Kiev. L’epica di un’Ucraina destinata a vincere in breve tempo dopo aver assorbito l’urto iniziale dell’invasione – in una marcia trionfale verso il Mar d’Azov e i confini del 1991 – è andata definitivamente in frantumi con l’offensiva estiva da poco conclusa.
Le forze armate ucraine hanno consumato mesi di forniture NATO (difficilmente replicabili) per avanzare di 10 chilometri nei campi dello Zhaporozhye, raggiungendo a malapena la prima linea difensiva russa e senza conquistare nessun obiettivo strategico. I vertici di Kiev avevano fatto promesse precise al Paese e agli alleati. Ancora a settembre Zelensky prometteva la liberazione di Bakhmut e di “altre due città”. A inizio novembre – nonostante limitati successi ucraini in un fronte separato, quello del Dnepr – le forze armate ucraine si trovano con la roccaforte di Avdeevka parzialmente circondata e i villaggi riconquistati a sud di Bakhmut (Klischeevka, Andreevka) nuovamente contestati dai russi. Qualcuno inzia a fare (e farsi) delle domande. A Kiev – oltre a trovare un capro espiatorio per l’offensiva estiva – bisogna anche concretamente decidere come (o se) proseguire la guerra. Iniziano a emergere proposte eterodosse in merito, come quella del candidato alla presidenza Oleksy Arestovich, ex consigliere militare di Zelensky dimessosi dopo aver subito pesanti critiche per la sua lettura controversa del bombardamento di un condominio di Dnipropetrovsk. Arestovich, che gode anche di entrature in Europa – proprio in questi giorni è ospite del festival di Limes a Genova – propone di rinunciare alla riconquista militare dei territori persi e di congelare il conflitto grazie a (supposte) garanzie NATO sul restante territorio.
Anche tra chi sostiene la prosecuzione della guerra in un modo o nell’altro, emergono delle spaccature: la più importante tra Zelensky e il capo di Stato Maggiore, generale Valery Zaluzhny. Quest’ultimo parla di “stallo” in un’intervista all’Economist, per venire immediatamente e pubblicamente smentito da Zelensky. Pochi giorni dopo, un pacco bomba recapitato all’ufficio di
Zaluzhny uccide un suo sottoposto. Viene licenziato il capo delle forze speciali Viktor Korenko, secondo alcune fonti un uomo di Zaluzhny. Ma il siluro più grosso contro il capo di stato maggiore arriva dagli USA: un’inchiesta del Washington Post [6] – insieme ai tedeschi della Bild – fa nome e cognome del pianificatore del sabotaggio del gasdotto Nord Stream: tale Roman Chervinsky, un’ovvia testa di legno di tutte le operazioni andate male dei servizi ucraini (quindi secondo prassi, “non autorizzate”) come il fallito tentativo di reclutare un pilota di bombardieri russi o di rapire uomini della Wagner in Bielorussia, che adesso si trova sotto processo in Ucraina. Secondo l’inchiesta, Chervinsky avrebbe agito su ordine diretto di Zaluzhny, all’insaputa di Zelensky (ma non dei servizi americani e di mezza Europa, a quanto pare) nel pianificare la distruzione del gasdotto.
In generale, l’amministrazione Zelensky è caratterizzata da un’accentramento sempre maggiore del potere. Rivali passati e potenziali del presidente non se la passano bene. L’oligarca che ha lanciato mediaticamente e finanziariamente Zelensky – Igor Kolomoisky – è dietro le sbarre e sotto processo, privato della sua cittadinanza ucraina. Al predecessore Petro Poroshenko – che è stato oggetto di una retata dell’SBU nel 2019, ed è sotto processo per “alto tradimento” – è stato vietato di lasciare l’Ucraina per conferire con i leader della NATO al summit di Vilnius. Il capo del secondo partito alle elezioni locali del 2020 – Viktor Medvedchuk, legato alla Russia e a Putin personalmente – è stato arrestato nel 2022 e deportato in Russia con uno scambio di prigionieri. Il rivale (filo tedesco) Vitaly Klitschko è stato pubblicamente umiliato da Zelensky, che lo ha accusato di negligenza nel mantenere i rifugi antiaerei della Kiev di cui è sindaco, e quasi costretto alle dimissioni. Lo stesso vale per chi ha avuto modo di accumulare potere dall’inizio della guerra vista la posizione apicale in settori dello stato legati allo sforzo bellico: il ministro della Difesa Reznikov è stato licenziato e sostituito con il “signor nessuno” Umerov, il ministro degli interni Monastirsky è morto in un incidente del suo elicottero vicino alla capitale Kiev.
Se e quando si terranno le elezioni in Ucraina, tutti i rivali di Zelensky partiranno pesantemente svantaggiati, con un apparato mediatico (canale unico statale) e poliziesco/giudiziario che sembra schierato con il presidente. Non manca chi sostiene soluzioni più radicali, come il maggiore generale Dmitry Marchenko che – rompendo il voto di “neutralità” politica dei militari – sostiene la necessità che Zaluzhny (che tra l’altro non ha mai pubblicamente mostrato ambizioni politiche) diventi presidente, “come Charles de Gaulle”, per combattere la corruzione. Qualcuno ricorda come salì al potere Charles de Gaulle?
Una lunga inchiesta di Time – secondo alcune fonti ucraine, informata proprio da Arestovich – dipinge Zelensky come un presidente solo, scollegato dalla realtà, incupito e iracondo con i sottoposti. Più che la veridicità del reportage (comunque plausibile) è interessante che sia stato pubblicato dal Time. Un’ondata incessante di pezzi negativi sull’Ucraina da parte dei principali media anglosassoni – dal tono impensabile anche solo la primavera scorsa – ci fa notare, insieme al subbuglio in Europa e negli USA (dove si torna a parlare con la Russia) sui fondi all’Ucraina, che anche tra gli alleati ci si stiano ponendo delle domande sul futuro dell’Ucraina, dalle conseguenze molto pesanti.
di Pietro Pinter
fondatore e curatore del canale Telegram Inimicizie
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