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OFFENSIVA UCRAINA, QUEL CHE NE RESTA

di Pietro Pinter – Sono passati più di 3 mesi da quando le forze armate ucraine hanno lanciato la loro preannunciata offensiva di primavera-estate. Negli ultimi 100 giorni un contingente di circa 12 brigate, equipaggiato con le migliori forniture militari che la NATO è stata in grado di offrire e con quanto restava della riserva strategica di veicoli corazzati sovietici, in preparazione almeno dall’inverno scorso, si è scagliato contro linee difensive russe altrettanto lungamente preparate. Secondo la maggior parte delle analisi autorevoli, una tra tutte quella del capo di stato maggiore americano Mark Milley, l’offensiva ucraina si esaurirà nei prossimi 30-60 giorni a causa del mutamento del meteo (che renderà il terreno prevalentemente rurale dello Zhaporozhye una palude fangosa) e del deterioramento delle capacità offensive dovuto all’attrito.


Le forze armate ucraine, nonostante alcuni successi tattici, sono lontane dal “conquistare obiettivi strategicamente importanti che garantiranno un maggior peso al tavolo delle trattative”, come il consigliere per la sicurezza nazionale USA, Jake Sullivan, pronosticava all’inizio di giugno. Nel principale teatro delle operazioni, l’assalto ha raggiunto al massimo i 10 chilometri di profondità e, come mostrato chiaramente nell’intervista sopracitata di Milley, che risale all’11 settembre, non ha superato la prima delle tre principali linee difensive russe (vedi foto), contrariamente a quanto affermato da alcune fonti. Il contingente ucraino ha concentrato i suoi sforzi nelle insenature, caratterizzate sempre da terreno più basso rispetto a quello circostante, che si sono rivelate più vulnerabili nei primi giorni di “ricognizione in forze”: questo è avvenuto poco a Est del Dnipro presso il villaggio di Pyatikhatky, nel settore centrale (dove negli ultimi giorni si concentrano i combattimenti più
feroci) a Rabotino, a 10km dalle linee di partenza ucraine, e nella “cengia di Vremensky”. L’assalto però non è riuscito a sfondare le principali linee di difesa e le alture controllate dalle forze armate russe, per raggiungere obiettivi strategici come Tokmak, città situata a 20km dalle attuali posizioni ucraine, snodo autostradale e ferroviario fondamentale del corridoio
terrestre tra Russia meridionale e Crimea, bastione della terza (e ultima) linea difensiva. Almeno, per ora.

Se questo stato delle cose dovesse essere confermato alla fine dell’offensiva, il bilancio per Kiev non potrebbe che essere negativo. L’Ucraina avrebbe speso una forza d’assalto difficilmente replicabile nel breve-medio periodo per ottenere un limitato successo tattico, senza successo strategico. Una situazione simile a quella dell'”operazione Charlie”, l’ultimo assalto tedesco della prima guerra mondiale che, pur riuscendo a penetrare le linee anglofrancesi, non riuscì a cambiare il corso della guerra prima dell’arrivo in forze del contingente statunitense e dell’esaurimento delle risorse tedesche.

Il paragone è volutamente esagerato: le forniture NATO all’Ucraina non si esauriranno dall’oggi al domani, e la capacità dell’industria bellica russa – pur aumentata nell’ultimo anno – non sarà probabilmente in grado di consentire una massiccia offensiva in grado di mutare radicalmente il corso della guerra. Ma il problema, per Kiev, rimane. In Ucraina arriveranno gli F-16, i missili a lungo raggio ATACMS e forse – cosa che il ministro degli Esteri ucraino da per scontata, umiliando quasi ritualmente l’omologa tedesca Barbock, anche i missili Taurus. Ma tutti concordano sul fatto che tramonta il sogno di un Blitzkrieg verso il Mar Nero che colga la Russia di sorpresa e la porti ad una breve capitolazione. All’orizzonte si conferma la prospettiva, invero già piuttosto chiara dalla stabilizzazione delle linee russe dopo le dolorose (e disastrose) ritirate di Kherson e Kharkov, di una lunga guerra d’attrito.

Una forma di guerra che non gioca in favore dell’Ucraina, a causa di quell'”asimmetria della volontà” che ha caratterizzato pressoché tutte le guerre di spedizione della NATO (e questa è senza dubbio una guerra della NATO, a guida americana) dalla seconda guerra mondiale in poi. In discussione non è la volontà ucraina di combattere – che non ha mostrato alcun segno di cedimento – quanto invece la disponibilità (e in certi casi, la stessa possibilità) da parte della coalizione a supportare ai livelli attuali il suo sforzo bellico. Si legge sul prestigioso e influente Foreign Affairs che “il rischio principale per l’Ucraina non è tanto un brusco cambiamento politico in Occidente, quanto il lento disfacimento di una rete di
assistenza estera accuratamente tessuta.” Ed è un giudizio piuttosto condivisibile. Un supporto costante ma ridotto (il Regno Unito ha già dichiarato, ad esempio, che non sostituirà il carro Challenger, uno su 14 inviati, distrutto in battaglia) potrà permettere all’Ucraina di sopravvivere alla guerra ma non di vincerla. E questo potrebbe portare a un mutamento di strategia: un’Europa occidentale preoccupata dalla crisi economica e dalla necessità di assicurare i propri legami commerciali in Eurasia, e un’America assorbita dal più importante conflitto con la Cina, o dalla meno importante ma più vicina crisi al confine meridionale, potrebbero voler porre fine alla guerra a oltranza in Ucraina e (posto che un’intesa si riesca a trovare, cosa non scontata vista la scommessa ormai totale di Mosca sulla “operazione militare speciale”) scendere a patti con i nemici russi.

Zelensky è ben conscio di questo e ha dichiarato di essere pronto a una guerra “perenne”, “senza lieto fine”. Per affrontarla, il leader ucraino cerca di ripulire il Paese dall’immagine di corruzione che sta sollevando sempre più critiche, soprattutto negli USA, relative alla destinazione dei fondi inviati all’Ucraina, mettendo sotto accusa oligarchi, commissari e persino licenziando il ministro della Difesa, accusato da mesi di appropriazione indebita. D’altro canto, in mancanza di una reale industria bellica (salvo alcune eccellenze nel settore dei droni aerei e navali) Zelensky manda all’offensiva la principale risorsa che l’Ucraina può apportare alla guerra: la propria popolazione. Il licenziamento in blocco di tutti i commissari militari, la rimozione di esenzioni alla leva per studenti e alcune categorie di malati e la pressione sui Paesi europei per l’estradizione dei rifugiati idonei al servizio militare, preludono a una mobilitazione ancora più estesa delle precedenti, magari sul modello della mobilitazione totale sperimentata in alcuni distretti del Paese.

Meno chiari sono i prossimi passi della Russia, che dalla presa di Bakhmut non ha più tentato nessun significativo sforzo offensivo, salvo operazioni minori nella direzione di Kupyansk durante l’offensiva ucraina. Per il momento il Cremlino esclude nuove mobilitazioni, investe nell’espansione dell’industria bellica, rafforza la difesa delle sue infrastrutture critiche, tenta di riparare intese strategiche entrate in crisi (Turchia, Armenia), di sviluppare quelle che hanno funzionato (India, Cina, Arabia Saudita, Iran) e di forgiarne di nuove, per quanto improbabili (Corea del Nord, Myanmar). Risolve – con spettacolare violenza, e pensionando generali dalla sospetta lealtà – i suoi scontri di potere interni.

Verosimilmente, anche il Cremlino si prepara ad una guerra di lungo corso, che dovrà gestire come un fattore strutturale della sua politica estera e militare, e non più come una vorticosa emergenza. Ciò che la accomuna all’Ucraina è che i suoi risultati sul campo – e nell’eventuale diplomazia del conflitto – non saranno limitati tanto dalla volontà di combattere, quanto dalla capacità di farlo con i propri mezzi, a seconda di quelli che la NATO potrà e vorrà mettere in campo.

di Pietro Pinter

fondatore e curatore del canale Telegram Inimicizie

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