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Posts tagged as “elezioni”

KIEV, LE TESTE CHE CADONO E QUELLE CHE CADRANNO

di Pietro Pinter – Quando la propaganda diventa inconciliabile con la realtà, una resa dei conti prima o poi arriva. La testa di qualcuno – sia esso il vero responsabile o un capro espiatorio – deve rotolare davanti all’opinione pubblica, per permettere di “ricominciare da capo” con un’immagine ripulita. Far saltare teste però significa anche minare gli equilibri politici, cosa particolarmente pericolosa in un Paese in guerra. È successo in Russia l’anno scorso, quando i vertici militari hanno scontato il fallimento nel Nord dell’Ucraina, a Kharkov e sulla riva destra del Dnepr, della “operazione militare speciale”, venendo esautorati dal “partito della guerra” guidato da Prigozhin, con gli  esiti noti a tutti. Adesso sta succedendo a Kiev. L’epica di un’Ucraina destinata a vincere in breve tempo dopo aver assorbito l’urto iniziale dell’invasione – in una marcia trionfale verso il Mar d’Azov e i confini del 1991 – è andata definitivamente in frantumi con l’offensiva estiva da poco conclusa.

ZALUZHNY E ZELENSKY SEPARATI IN CASA

I media russi gongolano e di certo esagerano. Ma si fanno sempre più rumorose le voci che, da Kiev, parlano di un recente dissenso (ok, non esageriamo nemmeno qui: divergenza di vedute) tra i due incontrastati protagonisti di questa difficilissima stagione della storia ucraina: il presidente Zelens’kyj e il generale Zaluzhny, comandante in capo delle forze armate ucraine. che i due abbiano idee diverse è stato certificato dalla recentissima intervista che il generale ha rilasciato a The Economist, in cui parla di “stallo” delle operazioni militari, esclude prossimi colpi di scena (ovvero, risultati clamorosi) e invoca una specie di rivoluzione tecnologica che possa fornire ai soldati ucraini i mezzi per sfondare le linee russe. Il tutto mentre Zelens’kyj non cessa di girare il mondo e incontrare leader per assicurarsi gli indispensabili rifornimenti, garantendo a tutti che la vittoria ucraina è non solo inevitabile ma anche prossima. E mentre il ministro della Difesa, Rustem Umerov,  conferma ufficialmente la dottrina militare del Paese, come se dal 24 febbraio 2022 non fosse successo niente. E mentre i consiglieri della Presidenza, primo fra tutti l’ineffabile Mykhaylo Podoljak, annunciano uno sfondamento al giorno.

PRIGOZHIN, O LA SCELTA TRA PUTIN E L’IGNOTO

Bisogna sempre stare molto attenti a ciò che si desidera, perché a volte i desideri si avverano. Così ieri, per qualche ora, l’Occidente ha provato il brivido di ciò che da anni evoca e auspica: un tentativo di eliminare Vladimir Putin o, almeno, di condizionare e riorientare il suo potere. Così anche Evgenyj Prigozhin, per lungo tempo descritto come un satana mercenario e sanguinoso al servizio del Cremlino (perché ora c’è il Prigozhin leader di soldati ma prima c’era il Prigozhin leader degli hacker), ha goduto di un quarto d’ora di celebrità e di stima dalle nostre parti. Il suo abbozzo di marcia su Mosca ha brevemente destato un certo tifo e qualcuno ha pure cercato di vendere il dietrofront finale come un atto di saggezza quando, palesemente, si è trattato di una resa: in nessun modo l’avrebbero lasciato arrivare alla capitale, e i suoi mezzi allineati in autostrada sarebbero stati un facile bersaglio per i caccia.

Russia Unita in una Russia meno unita

E insomma, anche questa volta Russia Unita l’ha sfangata e potrà continuare a controllare la Duma.  Diamo un’occhiata ai dati, senza le isterie degli pseudoesperti che, quando si tratta di Russia, spuntano come i funghi. Mica c’è stata tanta differenza, rispetto alle elezioni del 2016. Allora (2016) affluenza al 47,88%, Russia unita al 54,18% e il Partito Comunista al 13,34%. Oggi (con il 99,77% dei voti scrutinati), Russia Unita al 49,84% e i comunisti al 18,95, con l’affluenza intorno al 52%. Chi parla oggi di buona affluenza dimentica che quella del 2016 fu la più bassa della storia, in Russia. E chi sottolinea che Russia Unita è andata in crisi, dimentica quanto contasse nel 2016 l’effetto traino della crisi in Ucraina e Crimea. E trascura il fatto che il 5% guadagnato dal Partito Comunista in questo voto è in gran parte dovuto a un trasferimento di consensi da Russia Unita. Assai più radicale del partito di Putin, per esempio nei rapporti con l’Occidente, quello di Zyuganov rappresenta la contestazione (da destra) istituzionale. Gli scontenti votano Partito Comunista sapendo che, in ogni caso, Zyuganov alla Duma voterà con Putin. E dubito molto, come scrive anche Marco Bordoni nel suo articolo, che il leader dei comunisti metterà a rischio l’attuale buona sorte per trasformarsi in un oppositore vero.

PIU’ COMUNISTI DI COSI’ SOLO CON ELTSIN

di Marco Bordoni    L’analisi della vigilia è sostanzialmente confermata dai risultati quasi finali: queste elezioni non potevano essere, e non sono state, una svolta per la Russia. Come sono andate? Vediamolo nel dettaglio: Russia Unita perde qualche punto e qualche seggio rispetto alla tornata del 2016 ma la grande maggioranza dei media, della burocrazia e della politica fa bene o male quello che deve, ovvero porta il Paese profondo a votare Russia Unita.  Il Partito Comunista ottiene il miglior risultato degli ultimi vent’anni anni (oltre il 20% sooo alle politiche del 1995 e del 1999, n.d.r) e questa (chiamiamola così) vittoria, avrà sicuramente molti padri. I liberali diranno che è merito di Navaly, e del suo progetto di Voto Intelligente, che invitava i simpatizzanti del blogger a sostenere 137 candidati comunisti.

Il voto e l’ossessione di Putin

È noto a tutti che Vladimir Putin non è arrivato in grandissimo spolvero al voto (si tratta di rinnovare i 450 seggi della Duma ed eleggere 12 governatori regionali) che la Russia ha affrontato in questi giorni. Gli indizi del nervosismo del Presidente sono evidenti, dalla misteriosa “vacanza” di quattro giorni trascorsa con il ministro della Difesa Shoigu in una località segreta della Siberia all’autoisolamento deciso dopo che, secondo le informazioni ufficiali, molti membri del suo staff sono risultati affetti da Covid. Curioso sistema di difesa (e il vaccino? e i tamponi? e i controlli?) che fa il paio con la vaccinazione, che Putin fece senza mostrarsi e senza rivelare con quale vaccino. E poi ci sono i segnali di qualche smottamento nella cosiddetta “verticale del potere”, cioè in quella struttura centralizzata di gestione del Paese che è stata forse il più vero e significativo successo di Putin. Prima del voto sono stati innumerevoli gli alti funzionari che, nelle diverse regioni, sono stati silurati con la classica accusa di corruzione. E ci sono personaggi fino a ieri importanti che paiono caduti in profonda disgrazia: per esempio Dmitrij Medvedev, già premier e Presidente, in teoria capo del partito putiniano Russia Unita ma del tutto assente dalla campagna elettorale.

Navalny, di cui mi ricordo solo io

Altre grane per Aleksey Navalny: un Tribunale di Mosca sta preparando un nuovo procedimento per le ripetute affermazioni che lui fece nel gennaio scorso quando, appena rinchiuso nel carcere moscovita di Matrosskaya Tishinà dopo essere rientrato dalla Germania, disse di avere intenzione di evadere. Siamo all’accanimento, ovvio. Quindi, pur avendolo sempre considerato un furbo agitatore assai più bravo nel marketing che nella politica, ora ho voglia di scrivere una cosa a suo favore. Vi prego, niente prediche. Non spiegatemi che Navalnyj viene finanziato dall’estero, lo so. Come so che, senza l’appoggio dei servizi segreti occidentali, certi colpetti come tracciare i telefoni privati degli agenti russi che lo seguivano non sarebbero stati possibili. Detto questo, e detto magari anche altro, non posso che provare compassione. Qualunque cosa si possa pensare di lui, Navalny è uno che ci ha messo la faccia e molto altro: è tornato in Russia sapendo che sarebbe finito in galera, e infatti adesso sconta due anni e mezzo di prigione a Vladimir. Il suo movimento politico è stato disperso, le sue fondazioni costrette a chiudere.

ARMENIA, IL VOTO SULLE FERITE DELLA GUERRA

di Maurizio Vezzosi da Erevan (Armenia) – Arrivata alle elezioni politiche, l’Armenia si trova a fare i conti con una situazione assai complessa: la piccola Repubblica ex sovietica è andata al voto in un clima di forte risentimento nei confronti della propria classe politica e al tempo stesso di disillusione. La sconfitta nella guerra dello scorso autunno con il vicino Azerbaijan ha lasciato ferite profonde a livello sociale, politico ed economico. L’affermazione azera nella regione del Karabakh ha provocato la perdita del controllo di centrali idroelettriche e di vaste aree di territorio agricolo particolarmente fertile, oltre che importanti sotto un profilo simbolico e culturale.

LA RUSSIA E IL COVID: E LE REGIONI… (3)

di Kadri Liik   Il senso comune avrebbe potuto ipotizzare che il Cremlino avrebbe sfruttato l’opportunità creata dal virus per impegnarsi in un’ulteriore centralizzazione, nonché in un maggior controllo della popolazione. Ma quello che è successo – almeno sul fronte della centralizzazione – è stato l’opposto. Putin ha annunciato che tutte le regioni e i governatori dovevano prendere le decisioni più adatte alla loro specifica situazione. In teoria, una tale delega di responsabilità aveva perfettamente senso: l’intensità della pandemia variava notevolmente tra le regioni; e il sistema sanitario russo è organizzato a livello regionale, con le autorità federali che svolgono un ruolo assai scarso. Tuttavia, per un Paese la cui traiettoria politica negli ultimi vent’anni è stata quella di una decisa centralizzazione da parte del Cremlino (con solo minime correzion dopo le proteste del 2011-2012), l’approccio di Putin è stato sconcertante.