Il siluramento del generale Valeryj Zaluzhny (seguito in poche ore da quelli del capo di stato maggiore Sergej Shaptal e del primo vice-ministro della Difesa Aleksandr Pavlyuk) non ha ovviamente nulla a che fare con l’andamento negativo dell’offensiva ucraina di primavera-estate. O meglio: ha a che fare, ma non perché Zaluzhny non sia stato in grado di guidarla, né perché il suo sostituto, il generale Aleksandr Syrsky, abbia in tasca il segreto della vittoria. Il problema è politico, solo politico.
Com’è ormai noto, il dissidio decisivo tra il Presidente e il comandante delle forze armate ucraine è nato e si è approfondito su due questioni. La prima è cosa fare ora. Zaluzhny proponeva di assestare le linee, far passare l’inverno, ottenere nuove armi dall’Occidente e preparare una nuova iniziativa per la prossima primavera. Zelensky l’ha detto e ripetuto: vuole che l’Ucraina mantenga l’iniziativa, attacchi, non dia tregua alla Russia. La seconda: mobilitazione o no? Zaluzhny chiedeva l’arruolamento di altri 400 mila uomini, Zelensky nicchiava, preferiva chiedere ai Paesi europei di espellere gli ucraini (quasi 500 mila uomini in grado di fare il servizio militare) che hanno trovato rifugio fuori dai confini della patria. In ogni caso, Zelensky palesemente non voleva assumersi la paternità di un provvedimento impopolare e già duramente criticato da diverse forze politiche ucraine.
In un Paese come l’Ucraina odierna, dove il Parlamento è dominato dal partito del Presidente (Servo del popolo) che ha la maggioranza assoluta dei seggi, e dove per evidenti ragioni non si andrà a elezioni per chissà quanto tempo, era inevitabile che a cedere il passo fosse il generale Zaluzhny. A essere cattivi potremmo persino sospettare che Zaluzhny cercasse un esito di questo genere e che si tenga pronto per una carriera politica nel momento in cui Zelensky mollasse o la sua presa sul potere fosse meno ferma.
Ma la vera trama dietro queste dimissioni, quella che orienterà anche gli sviluppi del prossimo futuro, ha un nome preciso: armi e soldi. Zelensky ha chiesto gli ucraini di combattere fino a quando l’Ucraina non sarà tornata ai confini del 1991, cioè con il controllo completo del Donbass e della Crimea, oltre che (ovviamente) delle regioni di Kherson e Zaporozhye ora occupate dai russi. E ha loro promesso di non cedere mai, fino al punto da vietare per legge qualunque trattativa con la Russia. La promessa decisiva, però, è quella fatta agli Usa e all’Unione Europea, a quello che i russi chiamano con disprezzo “Occidente collettivo”: combattere la Russia, tenerla impegnata e logorarla in modo che non sia più una minaccia per nessuno.
Molti politici americani l’hanno ammesso senza falsi pudori: con il 3-5% del bilancio alla Difesa, gli Usa impegnano la macchina da guerra russa. E senza “spendere” un soldato, perché in trincea vanno gli ucraini. Anche in Europa molti dicono: se la Russia vince in Ucraina poi toccherà a qualcuno di noi. Quindi dobbiamo finanziare e armare l’Ucraina, perché combatte per noi.
Se tutto questo è vero, l’effetto si sente anche in senso inverso. Ovvero: se l’Ucraina dovesse cessare di combattere, continuerebbe a ottenere i 50 miliardi che la Ue ha stanziato pochi giorni fa, o i 100 miliardi di dollari in aiuti militari che gli Usa hanno stanziato in questi due anni di guerra? Potrebbe ancora contare sull’assistenza di un Occidente che, proprio approfittando del tempo concesso dalla resistenza degli ucraini, ha intanto allargato i confini della Nato e spinto molti Paesi (Germania, Polonia…) a riarmarsi?
È chiaro quindi che un generale come Zaluzhny, che chiedeva di fermarsi e riorganizzarsi, non poteva più andare bene a un presidente come Zelensky, e a un’Ucraina ormai distrutta che solo attaccando può ottenere dall’Occidente i mezzi per sopravvivere. Per la stessa ragione Zaluzhny, che si diceva avesse ottimi contatti in ambiente Nato, non poteva più piacere ai Paesi occidentali che finanziano l’Ucraina: se l’Ucraina non attacca l’esercito russo non si logora e i quattrini spesi per aiutarla non sono più così ben spesi.
Fulvio Scaglione
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