di Marco Bordoni “Russia, dove stai volando, dà una risposta! Non dà risposta.” diceva a suo tempo Gogol. Non è proprio così. La risposta la dà eccome. Certo, non è una risposta che ci piace, quella di Putin. Ma il fatto che non siamo disponibili a considerarla seriamente non la rende meno chiara. Capire le intenzioni dei Russi è facile. Basta ascoltarli ed osservarli con attenzione. “Sappiamo che la disintegrazione del nostro stato è una possibilità e ne stiamo discutendo apertamente”, dice Sergej Karaganov, presidente del Consiglio di Difesa e Politica estera russo, e prosegue: “gli obiettivi [dei nostri avversari] sono cambiati: prima erano la deterrenza e il contenimento, ora il collasso della Federazione”. Il primo dato è, quindi, che le elite russe sono consapevoli della natura esistenziale dello scontro in atto.
Secondo: la Russia si prepara alla guerra almeno dal 2020. Letta retrospettivamente, la riforma costituzionale, specialmente nella sua componente ideologica, ha un senso chiaro: fornire lo strumento tecnico-politico necessario alla svolta securitaria e alla translazione del campo politico verso la blindatura patriottica indispensabile alla guerra. Anche la narrativa di Vladimir Putin, concentratasi in maniera quasi ossessiva sulla storia del Paese (non solo sulla Grande Guerra Patriottica, il cui culto civile è stato addirittura costituzionalizzato, ma anche sui grandi statisti e condottieri che ne hanno segnato le fortune, come Aleksandr Nevsky, Pietro, Alessandro III, Caterina…) è eloquente: si tratta di un appello alla nazione perché attinga alle esperienze e alle forze morali del passato per affrontare una prova decisiva.
Terzo: la Russia di oggi, politicamente parlando, è letteralmente un altro
Paese rispetto a quello che siamo stati abituati a conoscere dal 2000 ad oggi: l’equilibrio storico fra siloviki e oligarchi è rotto e il consenso della dirigenza si è ricomposto sulla scelta “epocale” dello scontro con gli ex partner occidentali: “L’era della cooperazione con l’Occidente è finita”, ha comunicato il ministero degli Esteri il 3 agosto scorso, “non ci sarà mai un ritorno alla situazione come era prima del 24 febbraio nelle relazioni con gli Stati Uniti e l’Europa”. Ponti bruciati alle spalle per esorcizzare lo spettro del ripensamento che potrebbe far vacillare una decisione coraggiosa ma anche azzardata. Forse temeraria.
Dopo il 24 febbraio il patriottismo è diventato mainstream e andare contro corrente per un funzionario è un suicidio politico. In una monografia uscita l’ anno scorso per ISPI, Andrey Kolensnikov (Carnegie Institute di Mosca) scorreva la lista degli esponenti liberali “superstiti” in posizioni potere in Russia (i cosiddetti sys-lib) dal titolo significativo: who is dead, who is alive? La rassegna comprendeva i soliti nomi che si fanno in questi casi: Elvira Nabiullina, governatrice della Banca Centrale; Aleksej Kudrin, presidente della Corte dei Conti; Sergey Kirienko, primo vicecapo dell’ Amministrazione Presidenziale (addetto alla supervisione del sistema politico), e il vicepresidente del Consiglio di Sicurezza Dmitry Medvedev. L’ analista concludeva sfiduciato che, pur ricoprendo incarichi di altissima responsabilità, questi “liberali” non avrebbero potuto esercitare un influsso (secondo lui) positivo sul corso politico russo essendo vittime della “trappola tecnocratica”: avendo accettato un ruolo puramente tecnico in un sistema di potere illiberale, hanno le mani legate.
Nel giro di pochi mesi l’analisi è diventata materiale di interesse archeologico. Oggi gli ex “campioni” liberali non si limitano certo a un ruolo passivo ma, con la sola possibile eccezione di Kudrin, sgomitano per conservare il posto e rilanciare la carriera nel nuovo clima politico, non senza gettare un’occhio alla carta di identità del Capo. A cominciare da Elvira Nabiullina, che “non fa quello che va fatto, ma quello che dice Putin”, osserva sconsolato l’economista Konstantin Sonin. Sonin, dalla sua cattedra di Chicago, discute con Radio Svoboda se la collega meriterebbe (dopo la caduta del “regime”, ovviamente) un processo come quello di Norimberga (risposta: sì perché, argomenta il docente, lei ora lavora attivamente per far funzionare l’economia di guerra russa).
L’ ex Presidente Dmitry Medvedev, logorato da anni di governo contrassegnati da crisi e stagnazione, sembrava finito non più tardi di sei mesi fa, ma ora cerca una seconda giovinezza politica reinventandosi falco. Per come la vede lui, la vicepresidenza del Consiglio di Sicurezza non è una casa di riposo dorata ma un trampolino dal quale rilanciarsi, postando sul canale Telegram e sui social dichiarazioni al vetriolo: dalla minaccia di risposta militare al blocco di Kaliningrad, alle mappe futuribili dell’ Ucraina dopo il conflitto (Kiev e dintorni), alle vere e proprie invettive rivolte contro gli esecrati (ex) partner occidentali (“li odio, sono bastardi degenerati”). Era portato in palmo di mano da Biden e Brzezinski, che speravano in un suo secondo mandato, osserva maligno Aleksandr Dugin, ora “scarabocchia instancabilmente post ultra-patriottici e smaccatamente imperiali sui social network” concludendo: l’archeomodernità del nuovo conservatorismo trionfa.
Quanto a Kinder Surprise (aka Kirienko Sergey), il protetto di Boris Nemtsov, l’uomo che da Primo Ministro nominò un certo Vladimir Putin a capo dell’ FSB e che in seguito (2005) venne salvato dal naufragio del cartello liberale Unione delle Forze di Destra da una mano (nemmeno tanto) invisibile che lo sollevò per porlo a capo di Rosatom: dal 2016 quest’uomo che tutti descrivono come gentile, preciso, efficiente e capace di creare gruppi di lavoro, che dà del tu a Putin quando parlano della comune passione per le arti marziali, questo funzionario apparentemente grigio ma segretamente ambizioso, ingegnerizza il consenso del corso putiniano nella veste di Primo Vicecapo dell’ Amministrazione Presidenziale con delega agli Affari Interni. È stato lui ad offrire al Sovrano il doppio + 70% (affluenza – approvazione) della Riforma Costituzionale. Oggi è il moderno Potemkin: sta a lui trasformare in Russia i territori ucraini occupati.
Oggi il Carnegie Institute di Mosca, per cui lavorava Andrey Kolensnikov, non esiste più. Kolesnikov continua a lanciare strali contro l’invasione su Foreign Affairs mentre il Direttore Dmitry Trenin si è schierato della parte delle autorità, attaccando “I russi che se ne sono andati e quelli contrari alla guerra” che “hanno scelto di opporsi al loro Paese, contro il loro popolo, in tempo di guerra”. Aggiungendo con rammarico: se Washington avesse acconsentito alle richieste di Putin di promettere che l’Ucraina non avrebbe mai aderito alla NATO, sostiene Trenin, la guerra avrebbe potuto essere evitata. Ora, il conflitto tra Russia e Occidente “probabilmente continuerà per il resto della mia vita“.
Tutto questo potrebbe stupire gli ingenui e i distratti che non abbiano notato quanto gli indirizzi politici generali siano potenti nel condizionare le traiettorie individuali. O non si sono forse visti, dalle nostre parti, dirigenti già “comunisti” e “rivoluzionari” tessere, dopo pochi anni, le lodi della “mano invisibile del mercato” e sindacalisti passare con disinvoltura della difesa dei lavoratori a quella, anche più appassionata, dei vituperati capitalisti? Gli uomini si chinano al soffiare del vento della Storia e il vento impetuoso della guerra ha trasformato in pochi mesi la Russia indurendo e impoverendo il panorama politico.
Tornando alle intenzioni russe, che stiamo ricostruendo. Resta da trattare il quarto e ultimo punto, che riguarda l’Ucraina. La posizione di Mosca è stata non solo teorizzata nella famosa “enciclica” del luglio 2021 ma anche ripetutamente illustrata (ne ho parlato qui) nelle sue più prosaiche implicazioni: “Se una repubblica” (è Putin che parla) “entrando a far parte dell’URSS, avesse ricevuto un’enorme quantità di terre russe, tradizionali territori storici russi, e poi avesse deciso di lasciare questa Unione, avrebbe dovuto andarsene con quello con cui è entrata. E non portarsi via i regali del popolo russo!”. In sostanza: Ucraina è l’Etmanato nei confini del Seicento, non le regioni meridionali e orientali strappate ai Turchi dagli zar. Quelle sono Russia.
Vanno evidenziati due dettagli molto importanti. Il primo: invadendo il Paese vicino la Russia non ha creato un Governo fantoccio. Nei primi giorni si parlò di riesumare Yanukovich, o di creare un governo provvisorio a Melitopol’ con a capo qualche figura di secondo piano come Oleg Zarev, e magari un “esercito ucraino” che si affiancasse alle forze russe. La propaganda avrebbe potuto lanciare al popolo ucraino il messaggio: non abbiamo nulla contro la vostra identità nazionale. Il nemico non siete voi, è il vostro Governo.
Come sappiamo, nulla di tutto questo si è realizzato. Non c’è una “Ucraina pro russa” nei piani di Putin. C’è (lo si è visto nella breve tornata negoziale di marzo) un’Ucraina sconfitta, ridimensionata territorialmente e militarmente. Ma quanto al Governo di quello che rimarrà a Kiev, Lavrov lo ha detto e ripetuto: non sono affari nostri. Secondo dettaglio: il referendum. Ormai sono troppi gli indizi che indicano la volontà di tenere questa consultazione destinata a fornire una precaria cornice legale per la successiva annessione. Evgeny Balitsky, il “governatore” della parte controllata dai Russi della regione di Zaporozhye, ha già annunciato che il referendum si terrà, anche se non ha fissato la data.
Se le regioni del Sud verranno davvero annesse, questo porrà un macigno sulle possibilità di negoziare qualsiasi restituzione, essendo la cessione di territori nazionali vietata dalla riforma costituzionale del 2020. Inoltre, la necessità stessa di forzare Kiev alla resa ed all’accettazione del fatto compiuto indurranno Putin e i suoi a tentare ulteriori espansioni (ho cercato di spiegare questo meccanismo lo scorso marzo), che allo stato non paiono possibili, ma che potrebbero divenire tali (nei calcoli russi) in seguito all’atteso collasso ucraino nella guerra di attrito: Kharkov e Odessa. Anche su questo punto, basta ascoltare i Russi, segnatamente Lavrov: “Non sono solo Donetsk e Luhansk, sono Kherson, Zaporizhzhia e una serie di altri territori. E questo è un processo continuo, coerente e costante”.
Manca un tassello importante, ed è: come convincere gli Ucraini delle zone occupate a farsi Russi. E qui la risposta può essere identificata in un programma più semplice a dirsi che a farsi: invertire il processo di “nazionalizzazione” portato avanti, prima timidamente, poi a marce forzate, dai Governi dell’Ucraina indipendente. La pratica di “acculturazione forzata, imposta da una società dominante a una più debole, la quale in tal modo vede rapidamente crollare i valori sociali e morali tipici della propria cultura e perde, alla fine, la propria identità e unità” ha un nome in antropologia: etnocidio. Ed è precisamente quello che abbiamo visto succedere in Ucraina negli ultimi anni. Putin ha torto (e, da giurista, non può non esserne consapevole) quando accusa gli Ucraini di genocidio ma parlare, per il periodo 2014 – 2022 di tentativo di etnocidio dei Russi di Ucraina (e di bombardamenti terroristici a Donetsk) non è fuori luogo.
I valori di riferimento di chi si sentiva russo sono stati banditi da ogni aspetto della vita pubblica (toponomastica, memorialistica, festività etc…) nell’istruzione e nel discorso pubblico: le espressioni culturali e politiche represse con efficienza, talvolta con brutalità. Menzione particolare, per la profondità dei sentimenti scossi, la creazione in vitro, da parte di Poroshenko, della chiesa “autocefala” nazionale, con tanto di “santa coercizione” per condurre all’ovile nuovo di zecca le pecorelle smarrite. Le comunità russofone sono state sottoposte ad uno shock culturale con appelli a (frase idiomatica) “uccidere il russo in loro” e politiche tese a “formattarle” per installarvi coordinate identitarie, politiche, etiche ed estetiche diverse. A chi non concordava una sola possibile alternativa: “valigia, stazione, Russia” (altra espressione idiomatica). Ora, nei territori occupati, la musica si inverte: i simboli non solo dei battaglioni “punitivi” ma anche della stessa statualità ucraina sono platealmente rimossi, sostituiti da statue di Lenin, bandiere “della vittoria” e russe, araldica dei tempi dello zar. Non c’è nemmeno bisogno di invitare i dissidenti ad andarsene, “valigia, stazione, Kiev”: ci hanno già pensato, a far terra bruciata, le bombe e la paura, ben fondata, per i patrioti ucraini, dell’arrivo dei Russi. Restano nelle retrovie unità di sabotatori, che creano alle truppe di Mosca non pochi problemi.
In un ambiente di frontiera permeabile come quello del Sud-Est ucraino, in cui l’humus cultural-identitario è neutro e fertile, in cui il senso di appartenenza nazionale è un costrutto recente, che interseca le linee di separazione sociali, linguistiche e religiose, e in cui solo una parte minoritaria della popolazione ha una identità ben polarizzata mentre la maggioranza “si adatta” per tirare a campare, facendo buon viso a cattivo gioco, il condizionamento ha funzionato tanto bene che alla fine i Russi (intesi come Stato) si sono sentiti costretti ad una scelta estrema: o perdere per sempre territori che considerano, a torto o a ragione, un loro retaggio ancestrale, o riprenderne il controllo con la violenza per (tentare di) invertire il processo. E pazienza se, nel tentativo, il pomo della discordia dovesse restare schiacciato.
All’ attuazione pratica di questa seconda guerra di conquista, diretta ai cuori e alle menti, deve pensare Sergey Kirienko, il manipolatore, che sta portando nella Novorussia l’approccio tecnocratico con il quale si è guadagnato la fiducia di Putin: uomini nuovi, specialisti, insegnanti russi, portati nelle terre controllate da Mosca dalle più remote regioni, assieme ad adeguati investimenti, in un clima di mobilitazione nazionale, per gestire la ricostruzione materiale ma soprattutto identitaria dei nuovi territori. E l’odio della guerra? Le guerre si dimenticano, pensano (e dicono) i Russi. Si pensi ai Ceceni: venti anni fa nemici irriducibili, oggi in prima linea a fianco a noi. Si pensi a Giapponesi, Tedeschi, Italiani: a suo tempo bombardati dagli Americani, oggi vassalli fedeli. È un approccio brutale, che ricorda i tempi dell’assolutismo: “Gli uomini non meritano la verità”, scriveva Federico il Grande a Voltaire, proseguendo: “Sono un branco di cervi nel parco di un grande nobile, che non servono ad altro che a riprodursi, per popolare il parco”. Ma se vogliamo essere onesti fino in fondo dobbiamo ammettere che è la medesima logica messa in atto dai governi maidanisti e dai loro sponsor occidentali.
Identificate in questo modo, con pochi margini di errore, le caratteristiche e le modalità del programma russo, ci sarebbe da definire e calibrare le nostre possibili risposte. Nostre, dei Governi cosiddetti “occidentali”, fronte eterogeneo che comprende, ovviamente, chi i conti non sa o ha rinunciato a farli e altri che, invece, li sanno fare da tempo, e molto bene. Comunque è chiaro che alle iniziative russe ci opporremo. John Kirby lo ha già detto: le annessioni non rimarranno impunite. Benissimo. Del resto, in tutta questa faccenda, quando mai, da parte occidentale, si è vista un’ apertura?
Il 21 febbraio 2014 abbiamo rifiutato di ripristinare il quadro delle istituzioni democratiche ucraine, costringendo gli insorti a rispettare l’accordo con Yanukovich. L’inchiostro dell’accordo era ancora fresco, le firme dei garanti (Polonia, Francia, Germania), pure. Sarebbe stato un piccolo sacrificio, visto che l’ opposizione avrebbe comunque, di lì a poco, vinto le elezioni in un quadro legale, come era successo nel 2004. Poi abbiamo rifiutato di riconoscere i diritti all’autodeterminazione della comunità russa della Crimea e i diritti della Russia sulla penisola (che pure erano giuridicamente ben più fondati di quelli, da barzelletta, che Putin accampa per i nuovi territori occupati oggi). Sempre nella primavera del 2014 Mosca iniziò a soffiare sul fuoco della guerra civile in Donbass e chiese che venisse consentito il decentramento dell’Ucraina, una versione molto più blanda e incruenta di quello a cui aspira oggi. Richiesta respinta, non si sa bene perché.
Poi abbiamo rifiutato (“fermamente” come si dice in questi casi) di costringere Kiev ad applicare gli Accordi di Minsk, fingendo che fossero solo i Russi a violarli. La prima cosa da fare, trattato alla mano, dopo il cessate il fuoco, erano negoziati diretti fra Governo e separatisti. Kiev ha detto quasi subito che non ci pensava nemmeno. Eppure per anni i nostri politici hanno continuato a invitare Putin ad applicare gli accordi.
Ci avviciniamo ai giorni nostri. Poco prima dell’ inizio delle operazioni militari russe, quando già la diplomazia pattinava su un ghiaccio assai sottile, abbiamo respinto le richieste di Putin di accantonare la politica delle “porte aperte” per la NATO e di “finlandizzare” l’Ucraina (anzi, poco dopo l’inizio della guerra, praticamente senza alcun dibattito, abbiamo “ucrainizzato” la Finlandia). E oggi stiamo, nei fatti, assecondando le ardite speranze di Zelensky di vincere la guerra con Mosca, respingendo come folle questa soluzione “Coreana” che la Russia sembra preparare in punta di baionetta. Comprensibile, per carità: quello che stanno facendo i Russi non è uno spettacolo per stomaci delicati. Ma si noti: a ogni salto dell’escalation il prezzo (politico, economico e morale) del compromesso è sempre più alto. L’interlocutore sempre più ostile. Non ci piaceva parlare con la Russia del 2014, ancor meno ci piace farlo con quella di oggi. Ma non siamo a una festa, in cui si può parlare solo con quelli che ci stanno simpatici. Il tema è: non parliamo oggi perché pensiamo che la Russia di domani sarà più amichevole? Su quali basi? Oppure pensiamo si possa continuare a tirare dritto ignorando le loro richieste?
Gli Americani pensano di riuscire a controllare il processo, e pensano che fino a che non si va troppo in là, la cosa può anche fargli gioco. E va bene. Ma noi? Diseducati alla politica estera, avendo vissuto tutte le nostre vite sotto tutela, in un mondo in cui nessuna potenza ha mai avuto la forza di presentare all’alleanza occidentale il conto della sua intransigenza e dei suoi errori, siamo diseducati all’ascolto e al compromesso. Ci facciamo spingere per inerzia verso il momento terribile in cui potremmo trovarci davanti alla prospettiva di un coinvolgimento diretto o a quella di una resa disonorevole in una guerra in cui abbiamo investito troppo, e perso moltissimo, senza nemmeno aver discusso se valesse la pena combatterla, e senza prendervi parte.
Eppure le dinamiche dei rapporti di potenza ci suggeriscono che almeno su questo punto Putin potrebbe aver ragione: la supremazia del “miliardo d’ oro” è agli sgoccioli. L’epoca delle scelte senza conseguenze, dell’intransigenza gratis come posa, dell’obbedienza docile e irriflessiva all’alleato, nella cieca fiducia del suo ombrello protettivo, sta per finire per sempre.
di Marco Bordoni
fondatore e curatore del canale Telegram “La mia Russia”
bravo, equilibrato, informativo. Posso suggerire di chiamare Putin per nome invece che coll’appellativo di sovrano?
E lo stesso perche dta diventando sovrano lo zar di tutte le Russie, che sarebbero la Russija,Bjelorusdija e Novorussija. Ci hanno provato a spartire le ricchezza come insegna Zbignew Bzezinski, in una maniera ” il mio vicino ha la macchina, la moglie citycar la figlia cabrio,e io ho sputtanato tutto,sono rimasto con ka bicicletta. Probabilmente posso prendere dai vicini una delle tre,perché sono a piedi” perche ho sempre fato così, trufato indigeni in cambio di specchietti,. Ora ho trovato indigeni che non vogliono i specchietti, hanno piu forze atomiche e sono disposti a morire per qualcosa ” stupido” come,onore,fratellanza etc,Slavi insoma,da sempre palino dei geostrategi occidentali. Sta volta ,per la prima volta arriva il boomerang. Saluti e tante belle cose.