Chi temeva che dal discorso di Vladimir Putin uscisse una dichiarazione ufficiale di guerra all’Ucraina, ora deve preoccuparsi ancora di più. Non per la mobilitazione parziale annunciata dal Presidente e quantificata in 300 mila uomini (“Con concreta esperienza militare e secondo le specializzazioni richieste dai comandi delle forze armate”) dal ministro della Difesa Shoigu, ma per la decisione di cui questa mobilitazione è solo la conseguenza. Ovvero, la decisione di far svolgere nella Repubblica di Donetsk, in quella di Lugansk e nei territori “liberati” delle regioni di Kherson e Zaporozhye i referendum per l’annessione alla Russia.
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di Marco Bordoni “Russia, dove stai volando, dà una risposta! Non dà risposta.” diceva a suo tempo Gogol. Non è proprio così. La risposta la dà eccome. Certo, non è una risposta che ci piace, quella di Putin. Ma il fatto che non siamo disponibili a considerarla seriamente non la rende meno chiara. Capire le intenzioni dei Russi è facile. Basta ascoltarli ed osservarli con attenzione. “Sappiamo che la disintegrazione del nostro stato è una possibilità e ne stiamo discutendo apertamente”, dice Sergej Karaganov, presidente del Consiglio di Difesa e Politica estera russo, e prosegue: “gli obiettivi [dei nostri avversari] sono cambiati: prima erano la deterrenza e il contenimento, ora il collasso della Federazione”. Il primo dato è, quindi, che le elite russe sono consapevoli della natura esistenziale dello scontro in atto.
Giusto trent’anni fa, il 17 marzo del 1991, l’URSS chiedeva ai propri cittadini, tramite referendum, se era ancora desiderata o no, se doveva continuare a vivere o morire. Era il Vsesojuznyj referendum o sochranenii SSSR, il Referendum dell’intera Urss sulla conservazione dell’URSS, già dal nome un assurdo storico mica male.