di Pietro Pinter – A inizio febbraio, il Consiglio Europeo si riunirà nuovamente per trovare un accordo sulla Ukraine Facility Regulation, il quadro legale proposto dalla Commissione Europea a giugno 2023 – e approvato dal Parlamento Europeo ad ottobre – per fornire 50 miliardi di aiuti finanziari all’Ucraina per 5 anni, sul modello del Recovery Fund: ogni tranche di aiuti dovrà essere preceduta da diverse “riforme” da parte dell’Ucraina, concordate in un apposito piano. Se il sostegno della Commissione Europea, ultra-atlantista e autrice di molte fughe in avanti sull’Ucraina (si ricordi ad esempio, la folle proposta di una no fly zone sul Paese) è sicuro, lo stesso non si può dire per il Consiglio Europeo (gli Stati membri) che deve approvare all’unanimità il disegno, trattandosi di una decisione UE in tema di politica estera.
Secondo i piani del Parlamento Europeo infatti, la Ukraine Facility si sarebbe dovuta approvare già entro la fine dell’anno, ma questo non è avvenuto. Questi due mesi di ritardo per la tenuta dell’Ucraina sono già troppi. Gli Stati Uniti hanno smesso di fornire aiuti militari e finanziari a Kiev – dopo aver esaurito ogni escamotage dell’esecutivo, tra trucchi contabili e fondi di emergenza – a causa della mancanza di un accordo in sede di Congresso, dove
l’amministrazione Biden ha legato Ucraina, Israele, Indo-Pacifico e sicurezza del confine in un un unico pacchetto, che sta trovando resistenze in aula e su cui ancora non pare esserci accordo, mentre inizia la campagna elettorale e le prese di posizione – repubblicane su Ucraina e confine, democratiche su Israele – non faranno che accentuarsi. Commentando il fatto, un articolo di Politico ne studia l’impatto sul budget ucraino. Per dare un idea: l’intero bilancio dello Stato ucraino copre soltanto le spese militari, ogni altra spesa dipende da aiuti esterni. Dunque, mancando gli aiuti esterni, che provengono soprattutto da USA e EU, mentre una parte inferiore arriva dai singoli Stati membri e occasionalmente da altri Stati extra-europei, dal FMI e dalla Banca Mondiale, Kiev dovrà decidere se pagare i soldati al fronte o gli infermieri e i netturbini.
È ormai assodato che nel campo atlantico l’onere di sostenere l’Ucraina debba ricadere principalmente in capo alla UE. Gli USA si preparano ad affrontare una sfida più grande nell’Indo Pacifico, che richiederà tutte le risorse militari a disposizione, mentre nel Vicino Oriente e in America Latina l’incidente è sempre dietro l’angolo. Inoltre, Washington dalla guerra ha già ottenuto ciò che voleva: tagliare i legami dei Paesi UE con la Russia e sostituirli con legami transatlantici – ad esempio nel comparto energetico – con anche l’eliminazione fisica delle infrastrutture; mettere la Russia in condizione di non nuocere (e chi lo sa, forse un giorno anche di collaborare) nel Pacifico nei prossimi anni attirando tutte le sue energie sull’Ucraina[4] e sul fronte europeo/artico. La guerra d’attrito, preferibilmente a bassa intensità, può e deve essere appaltata agli europei, con la piena collaborazione della Commissione Von der Leyen. A prescindere dalla rielezione o meno di Biden.
Ora: una certa narrazione politico-mediatica, comune soprattutto in Italia, tende a vedere l’Ungheria di Orban come il solo ostacolo al piano UE per fornire all’Ucraina supporto “a lungo termine”, fermo restando che i 50 miliardi in più anni non bastano neanche lontanamente ai bisogni di Kiev. La realtà dei fatti è molto diversa. Tanto per iniziare: ai Paesi che potremmo definire “apertamente” contrari ad ulteriori aiuti all’Ucraina, bisogna aggiungere anche la Slovacchia di Roberto Fico, su posizioni molto simili a quelle di Orban. A questa schiera si potrebbe aggiungere anche l’Olanda, se Geert Wilders riuscisse a formare un Governo nelle prossime settimane, a seconda della coalizione. Possiamo poi aggiungere anche l’incognita della
Spagna di Sanchez, recentemente distintasi per aver rifiutato, non senza provocare forti rimostranze americane, di partecipare all’operazione Prosperity Guardian nel Mar Rosso, e per aver espulso in modo pubblico due spie della CIA, ree di aver infiltrato il servizio segreto spagnolo.
Non finisce qui la serie di “posti di blocco” che il Regolamento dovrà superare, se si considerano le
lamentele francesi – poi a quanto pare lasciate cadere, ma chi può dirlo – sull’acquisto di sole armi europee per gli aiuti della UE, le pretese tedesche e olandesi (di Rutte) di vedere alleggerita la propria quota nel fondo alla luce dei vasti contributi dati a livello nazionale, le tensioni ucro-polacche che di quando in quando sembrano tornare in superficie.
Molti Stati membri, e a questi si aggiunge il Regno Unito, che ha in questi giorni firmato un nuovo
accordo in tal senso con Kiev, sembrano intenzionati a supportare a lungo termine l’Ucraina, e le recenti decisioni a Roma, Parigi e Berlino (dove gli aiuti militari all’Ucraina per il 2024 sono stati raddoppiati rispetto al 2023) almeno sulla carta lo confermano. C’è però un motivo se, nonostante l’urgenza della situazione, non è stata ancora formata una coalizione dei volenterosi per scavalcare i recalcitranti, come recentemente ventilato anche dalla Von der Leyen. Fissare il sostegno all’Ucraina in ambito UE significa non poterlo mai più revisionare, a causa delle
farraginose procedure decisionali dell’Unione e delle leve di cui la Commissione dispone per imporre la sua interpretazione dei Trattati agli stati membri. Anche in questo caso, la UE è il vincolo esterno di cui anche i Governi più pro-ucraini sentono di aver bisogno. Aiuti da parte dei singoli Stati si troverebbero a essere continuo oggetto di discussione nei rispettivi parlamenti – come sta avvenendo negli Stati Uniti, da cui in ogni caso una quantità di aiuti anche simbolica ragionevolemente tornerà ad arrivare – e da parte dei Governi che in futuro potrebbero mutare orientamento nei confronti del sostegno a Kiev.
Mentre si studiano piani B, come quello sopracitato o pacchetti di aiuti più piccoli, un grosso piano pluriennale in ambito UE, come la Ukraine Facility Regulation rimane decisamente il piano A per chi, da entrambe le sponde dell’Atlantico, ritiene che l’Europa debba farsi carico del sostegno a Kiev in una guerra d’attrito di lungo periodo contro la Russia. Se questo piano dovesse fallire o rivelarsi insufficiente nella quantità di aiuti predisposti, diventerebbe inevitabile pensare ad altre soluzioni.
di Pietro Pinter
fondatore e curatore del canale Telegram Inimicizie
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