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IL PREZZO DELLA VITTORIA

Al momento in cui scrivo queste righe, il computo dei morti a Dnipro ha raggiunto quota 45. E prima di qualunque equivoco, va detto che la responsabilità di questa orrenda strage di civili ricade tutta sulla Russia. Sulla sua leadership politica e militare. E non ha nessuna importanza se il missile, come persino certe fonti ucraine hanno ammesso in ipotesi, non era diretto sul palazzo ma altrove, ed è stato deviato sul palazzo da un colpo della contraerea. Se lanci un’invasione, sei responsabile della guerra che ne deriva. Se lanci un missile, sei responsabile di dove cade. Altro non c’è. Detto questo, mi pare comunque incredibile che ci siano ancora così tante persone pronte a ribadire la retorica della vittoria, della “pace giusta” (che è, come ci spiegano, quella decisa dagli ucraini), in sostanza dell’umiliazione strategica della Russia attraverso la sconfitta sul campo, del naufragio della sua economia tramite le sanzioni, del crollo dei suoi assetti di potere a causa del costo della guerra e, per i più ottimisti, della disgregazione della sua unità federale. Senza che mai, nemmeno una volta, ci si interroghi su quale sia il prezzo che siamo disposti a pagare, e soprattutto a far pagare agli altri, per raggiungere questo obiettivo. Sempre ammesso che l’obiettivo sia raggiungibile.

La strage di Dnipro mette i brividi, come altre di questa guerra (per esempio, i 21 morti civili di Donetsk nel bombardamento ucraino del 14 marzo scorso). Ma queste sono esattamente le cose che succedono in guerra, in tutte le guerre. Non tireremo in ballo il bombardamento nazista di Coventry (14 novembre 1940, 1.236vittime civili) o quello anglo-americano di Dresda (13-15 febbraio 1945, tra 25 e 40 mila morti civili), perché quella era la seconda guerra mondiale e questa in Ucraina, sebbene sia una guerra assai meno locale di quanto ci piaccia pensare, a quel conflitto poco somiglia. Ma nella guerra al terrorismo islamico in Iraq, gli Usa hanno fatto migliaia di morti civili prima a Fallujah (2004 e 2005) e poi a Raqqa nel 2017 (1.600 civili morti, secondo un’indagine di Amnesty International e Airwars). Per non parlare delle stragi russe in Siria e degli infiniti altri esempi che si potrebbero fare parlando di questa o quella vittoria, compresa la vittoria russa in Cecenia. Persino a Grenada, nel 1983, dove la vittoria dell’esercito più potente del mondo era scontata, morirono 24 civili.

Il fatto che muoiano tantissimi civili (anzi, sempre più civili: nei quattro anni della prima guerra mondiale la percentuale dei civili sul totale dei morti fu del 16%; nei primi quattro anni dopo l’occupazione dell’Iraq nel 2003 fu di quasi il 90%) è una delle ragioni, forse la più banale ed evidente, per cui, vittoria o no, non bisogna fare le guerre. Ed è dunque lecito chiedersi, ancor più dopo Dnipro, che cosa voglia dire, in una guerra che nei mesi si è fatta sempre più aspra e distruttiva, la parola vittoria. Se la vittoria sia da perseguire a prescindere dal prezzo pagato. E che cosa voglia dire “pace giusta”, soprattutto se la pace giusta presuppone la resa totale di un Paese come la Russia, senza che esista alcuna prova concreta e  misurabile del fatto che si tratti di un presupposto realistico e realizzabile. Per me l’unica pace giusta è quella possibile. La pace impossibile (per essere espliciti, credo sia impossibile che la Russia si ritiri entro i confini del 1991, come chiede Zelensky, se non nel caso di quella famosa resa totale russa che non pare proprio alle viste) non è pace, non è niente. Chi invece vuole la guerra fino alla vittoria, la serie infinita di guerrafondai alle vongole, dica con altrettanta franchezza, se può, quante altre Dnipro (o Donetsk, o Soledar) servono per arrivarci.

Fulvio Scaglione

 

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One Comment

  1. Silvano Giugni Silvano Giugni 18 Gennaio 2023

    Sono appena tornato da un viaggio di un mese in Siberia. Francamente, al momento, la situazione è molto diversa da quanto viene sempre descritta qui da noi. Non è facile spiegarlo in poche parole (e non mi interessa il discorso smaccatamente finalizzato a dimostrare qualche cosa).
    Dalle condizioni di vita, dalle aspettative, dall’atteggiamento nei confronti del governo, tutto è diverso dai nostri racconti. Non mi ha dato l’impressione di un paese che sta per crollare e le politiche governative in vari ambiti, dalle ipoteche agli stipendi, sono molto apprezzate. Sto facendo propaganda? Ecco il grosso errore dell’Occidente; fantastica e pretende che la realtà non possa essere altrimenti da quanto egli stesso si è inventato. Una situazione dannatamente pericolosa per noi.

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