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VISTO DA MOSCA: GLI USA EGOISTI DI BIDEN

di Fyodor Lukyanov      Il discorso con cui Joe Biden, il 16 agosto 2021, ha commentato la fine della missione degli Stati Uniti in Afghanistan, e la successiva dichiarazione del 1 settembre, dovrebbero essere considerati un punto di svolta nella politica estera degli Stati Uniti. “So che la mia decisione sarà criticata, ma preferisco accettare tutte queste critiche piuttosto che passare questa decisione a un altro Presidente”, ha detto Biden, sottintendendo che i suoi tre predecessori non erano riusciti a fare il passo necessario. Ha quindi lanciato una frecciata non solo a Donald Trump (citato per nome), ma anche a George W. Bush e persino a Barack Obama. Secondo Biden, gli Usa non avevano mai avuto intenzione di impegnarsi in un nation building in Afghanistan, ma volevano solo affrontare specifici problemi di sicurezza e distruggere i responsabili degli attacchi terroristici all’America, e questi problemi sono stati risolti. Per quanto riguarda il nation building, è una totale bugia, ma è degno di nota l’entusiasmo con cui Washington ora rinuncia ai postulati che considerava fondamentali vent’anni fa.

L’invasione dell’Afghanistan del 2001 fu un atto di rappresaglia per gli attacchi terroristici di New York e Washington ma, soprattutto, fu un’operazione di portata storica per affermare la disponibilità degli Usa a trasformare con la forza il mondo nel modo “giusto”. Questo corso non fu stabilito da George W. Bush, e nemmeno da Bill Clinton, ma dal Presidente americano che proclamò la vittoria nella Guerra Fredda: George H.W. Bush. La prima manifestazione del “nuovo ordine mondiale” fu l’operazione Desert Storm all’inizio del 1991. L’Unione Sovietica esisteva ancora, a quel tempo, e l’intervento si concluse con l’espulsione di Saddam Hussein dal Kuwait, non con un cambio di regime in Iraq, come pure avevano chiesto i politici e i militari americani. Con la disintegrazione dell’URSS, non c’erano più restrizioni esterne e gli Usa entrarono nella cosiddetta “fase unipolare”. Una fase che ha offerto agli Stati Uniti la capacità e la possibilità di fare tutto ciò che ritenevano opportuno sulla scena mondiale.

In senso politico-militare, ciò significava l’assenza di concorrenti. Una serie di palloni-sonda lanciati con vari gradi di successo, come le azioni militari ad Haiti, in Somalia e in Bosnia, culminarono nel bombardamento della Jugoslavia, che provocò la disintegrazione finale dello Stato indesiderato e il successivo rovesciamento di un regime inaccettabile per l’Occidente. Tutto fu fatto senza invasioni via terra, che pure erano state discusse in linea di principio. Concettualmente, la politica americana del dopo Guerra Fredda fu formulata proprio negli anni Novanta. Il suo autore principale fu Bill Clinton, conosciuto in gioventù come pacifista e renitente alla leva.

La cassetta degli attrezzi politico-militari da utilizzare per raggiungere questo obiettivo (dall’intervento armato alla promozione di forme approvate di organizzazione socio-politica attraverso le rivoluzioni colorate) è stata costituita nella prima metà degli anni Duemila. Ma già a metà del decennio erano apparsi i primi segnali che indicavano che questa politica aveva i suoi svantaggi, a dir poco, e non produceva necessariamente i risultati sperati. La lunga campagna in Afghanistan, gli sviluppi disordinati in Iraq, la crescente resistenza nello spazio post-sovietico, la fatale disfunzione della Palestina dopo le elezioni democratiche imposte. Tutto questo avrebbe dovuto aumentare la consapevolezza di ciò a cui Biden ha accennato nel discorso sull’Afghanistan: la necessità di un cambiamento radicale di politica. La correzione è iniziata sotto Bush, Obama ha cercato un nuovo approccio senza cambiare la narrativa, Trump ha cambiato bruscamente la retorica e sconfessato le politiche precedenti ma non ha avuto il tempo di completare il lavoro.

Il disastro di Kabul nell’agosto 2021 avrebbe probabilmente potuto essere evitato se Washington fosse stata più responsabile e tempestiva nel ridurre la sua presenza in Afghanistan. Ma, a quanto pare, era troppo sicura di sé e anche ostacolata dalle dispute ideologiche e propagandistiche negli stessi Usa. La percezione degli Stati Uniti come egemone globale incondizionato si è talmente radicata nell’establishment americano dopo la Guerra Fredda che un allontanamento da essa ha provocato una feroce resistenza, anche se moltissimi avevano capito che non era più possibile andare avanti così. In altre parole, il desiderio di camuffare le ambizioni in diminuzione e imitarne la continuità, e l’impegno di principio verso le basi ideologiche, non hanno permesso agli Stati Uniti di tagliare il fardello in modo controllato. Di conseguenza, il mondo intero ha osservato con stupore la situazione precipitare nel caos, accompagnata dall’accusa di tradire alleati e ideali.

Questo evento dovrà essere ricordato come qualcosa di non meno simbolico della caduta del muro di Berlino o degli attentati alle Torri Gemelle di New York. I filmati che mostrano la fuga dall’aeroporto di Kabul e tutto ciò che l’ha accompagnata passeranno alla storia come l’epitome della fine di un’era. Nel suo discorso, Biden ha sostanzialmente annunciato che l’America si concentrerà su se stessa e sui suoi problemi per garantire la propria sicurezza e combattere i rivali strategici (Cina e Russia), ma non cercherà più di cambiare il mondo: è quello che è. Questo è un momento che fa riflettere dopo l’euforia della fine del XX secolo. Le ricadute sono possibili, ma non c’è ritorno alla precedente condizione degli Stati Uniti.

Il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan significa “porre fine a un’era di importanti operazioni militari per ricostruire altri Paesi”, ha detto Biden. Lo slogan “America is back”, da lui ripetuto tante volte durante la campagna presidenziale, significa, come possiamo vedere, non un nuovo ritorno nell’arena globale ma un “ritorno a casa”. In questo senso, Biden continua la politica di Trump, non importa quanto gli sia antipatico. Questo vale anche per il “confronto tra le grandi potenze” come punto centrale delle politiche globali e americane. Questo postulato è esposto nei documenti strategici adottati sotto Trump, ma non è stato rivisitato sotto Biden. L’attuale amministrazione Usa attribuisce un’importanza sempre crescente alla componente ideologica: il confronto tra democrazia e autocrazia. Ma questo viene fatto più per scopi strumentali, per facilitare la formazione di blocchi e la strutturazione della politica mondiale. Dopo l’imbarazzo afghano (per usare un eufemismo) questa parte della “dottrina Biden” diventa insignificante.

Non importa quale retorica accompagni le azioni reali, gli Stati Uniti stanno passando a politiche apertamente egoistiche, orientate esclusivamente su se stessi. Vent’anni fa, i neoconservatori e i neoliberisti fedeli a Washington credevano davvero che l’instaurazione della democrazia in tutto il mondo e l’imposizione di regole universali fosse nel migliore interesse dell’America. Da qui i folli piani per costruire uno “Stato democratico moderno” in Afghanistan, ora smentito da Joe Biden. Ora che i sogni si sono dissolti, resta solo il puro pragmatismo. L’era del “post-bipolarismo” che, come comprendiamo ora, non fu un periodo di creazione ma di decostruzione, conteneva alcune inerzie istituzionali della seconda metà del XX secolo, probabilmente il periodo più ordinato della storia politica mondiale. In generale, la transizione degli Stati Uniti verso una politica egoistica è un cambiamento positivo, almeno è onesto. Le finzioni sul “faro della democrazia”, soprattutto quando a esse si crede, non fanno che esacerbare il caos. Ma tutte le controparti dell’America nell’arena internazionale non devono dimenticare che gli Usa ora useranno tutti i mezzi disponibili per raggiungere i loro obiettivi. Gli altri Paesi si tengano pronti.

di Fyodor Lukyanov

Pubblicato in Russia in Global Affairs

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