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Referendum 1991, quando tutti volevano l’URSS

Giusto trent’anni fa, il 17 marzo del 1991, l’URSS chiedeva ai propri cittadini, tramite referendum, se era ancora desiderata o no, se doveva continuare a vivere o morire. Era il Vsesojuznyj referendum o sochranenii SSSR, il Referendum dell’intera Urss sulla conservazione dell’URSS, già dal nome un assurdo storico mica male.

Sulla scheda un unico quesito, il cui testo era stato reso noto due mesi esatti prima del referendum. Questo: “Considerate necessario preservare l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche come una rinnovata federazione di repubbliche uguali e sovrane in cui saranno pienamente garantiti i diritti e la libertà dell’individuo di ogni nazionalità?”. Nell’Urss in quel momento c’erano 192,6 milioni di aventi diritto al voto. L’affluenza al referendum fu dell’80%. Le autorità di Repubbliche come Lituania, Lettonia, Estonia, Moldavia, Georgia e Armenia, che premevano per l’indipendenza, non vollero partecipare all’organizzazione del referendum. In quelle Repubbliche si votò molto parzialmente, per iniziativa di reparti militari, soviet locali e altre simili organizzazioni. Altrove, per esempio, in Transdnistria o in Ossetia del Sud invece, si votò proprio per contrastare le politiche delle autorità locali che ambivano all’indipendenza. In sostanza, non votarono o non poterono votare al referendum poco più di 7 milioni di cittadini (allora) sovietici.

Il sì alla conservazione dell’URSS ottenne il 77,85% dei suffragi. Di fatto, fu quasi plebiscitario in quella che oggi è la Federazione Russa. Di certo, Mikhail Gorbaciov e i suoi uomini votarono in quel senso. E siccome in democrazia la volontà del popolo è sovrana, pochi mesi dopo il voto “sì” di decine di milioni di persone, l’Unione Sovietica veniva dissolta da tre persone: Kravchuk, Shushkevic e Eltsin, ovvero i presidenti di Ucraina, Bielorussia e Russia.  Il tutto, ed è questo che colpisce ancora oggi, senza che fosse sparato un colpo. Senza una importante manifestazione di protesta. Senza una vera contestazione.

È vero, quel referendum fu “infiltrato” da un mare di questioni diverse. Quelle politiche erano scontate. Ma c’erano anche quelle etniche (fortissime nei Paesi Baltici, per esempio) e quelle economiche (la dirigenza russa e quella ucraina erano convintissime che sarebbero state meglio, una volta che si fossero sbarazzate della “zavorra”). Ma soprattutto c’era, nel popolo russo, una stanchezza e una sofferenza di fondo che non è mai stata realmente misurata in Occidente. Il marzo del 1991, per fare solo un esempio, fu anche quello dei massicci e fortissimi scioperi dei minatori, rimasti senza paga e spesso senza lavoro. A dimostrazione che la mobilitazione, ormai, era destinata alle questioni vitali, al cibo da mettere in tavola, e che la politica doveva aspettare. E che, forse, anche il voto pro-Urss era stato influenzato da un più che giustificato timore di saltare nel vuoto, di abbandonare una certezza che ormai era quasi solo nominale ma restava pur sempre una certezza.

Trent’anni dopo, dicono le cronache, i nostalgici di Stalin in Russia sono più numerosi che mai. Molto più numerosi, però, dei nostalgici dell’Urss. Gli occidentali che accusano il Cremlino di voler “ricostruire” una specie di Urss dicono una sciocchezza, oppure agitano uno spauracchio per ragioni strumentali. Trent’anni di crisi e di rivalità hanno frammentato per sempre un’aggregazione politica che era stata frutto di un imperialismo (quello grande-russo) declinato prima dagli zar e poi dai dirigenti bolscevichi. Ma uno dei grandi problemi nei rapporti con la Russia sta proprio nel non capire che tra una presunta nostalgia (che non c’è) e una concreta sofferenza (che invece c’è stata, eccome, per abbandonare quella struttura sovietica) corre una grande grande differenza.

Lettera da Mosca

 

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