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LA RUSSIA VOTA, MA PER CHE COSA?

di Marco Bordoni   Il 5 febbraio 1997 George Kennan, ispiratore della “dottrina Truman” e della politica di “contenimento” dell’Unione Sovietica nel secondo dopo guerra, firmò per il New York Times un pezzo dal titolo “Un errore fatale” per prendere posizione sul progetto di allargamento a Est della NATO “fino ai confini russi”. La contrarietà dello statista era, in sintesi, così motivata: “Possiamo attenderci che una decisione simile infiammerebbe le tendenze anti occidentali e militariste dell’opinione pubblica russa; che abbia un effetto nocivo sullo sviluppo della democrazia russa; che riporti il clima da guerra fredda nelle relazioni Est-Ovest, e che spinga la politica estera russa in direzione decisamente sgradite”.  Come noto gli avvertimenti di Kennan furono ignorati e la NATO, che pure aveva assolto la sua funzione storica, non solo non venne liquidata, ma venne progressivamente estesa, con l’esplicito disegno di costruire ai danni della Russia un sistema giugulatorio di relazioni talmente sbilanciato da precludere a Mosca qualsiasi ambizione all’indipendenza decisionale (e qui la citazione di un altro eminente statista USA, Zbigniew Brzezinski, si impone).

Del resto la Russia non pareva affatto in grado di opporsi: si trovava, infatti, all’epoca, in condizioni semi coloniali, prostrata economicamente e asservita politicamente a un Governo diretta emanazione delle cancellerie occidentali (al tempo le “ingerenze” nei processi elettorali non scandalizzavano nessuno, tanto che il Times del 16 luglio 1996 esaltava con toni estatici i “consiglieri americani che hanno aiutato Eltsin a vincere”). Il rischio che qualcosa potesse andare storto sembrava, quindi, accettabile, se paragonato al premio ambito e poi, fugacemente, carpito: l’egemonia mondiale. 

Eppure un osservatore non sospettabile di russofilia, George Soros, commentava così il corso occidentale russo degli anni Novanta: “L’attuale sistema, che io definirei di capitalismo predatorio, sta creando una grande insofferenza tra la popolazione e forma l’humus dove potrebbe crescere un messia, un leader carismatico, il quale, promettendo la salvezza della nazione, conduce il paese al totalitarismo”. È solo un memento: sarà anche vero che la Russia di oggi ha imboccato una strada a noi sgradita. Ma una critica moralista da parte occidentale sarebbe molto ipocrita, perché questi sviluppi sono la precisa conseguenza (chiaramente identificata da chi aveva una vista sufficientemente buona) di un nostro azzardo morale. Quindi uno sguardo nitido, senza le lenti rosa dell’ apologia, ma anche senza quelle fosche dei pregiudizi, è il minimo che dobbiamo alla Russia e anche l’unico punto di partenza possibile per iniziare a capire dove si trova e dove è diretta.

Prendiamo queste elezioni parlamentari del 17-19 settembre, che cadono più o meno esattamente a metà del quarto mandato di Putin, come spunto per un esame più ampio, punto di partenza per allungare lo sguardo fino all’ appuntamento elettorale veramente importante: le presidenziali del marzo 2024. Sebbene i sondaggi diano Russia Unita oramai da tempo stabilmente sotto al 30%, non è detto che il partito di Putin non riesca, anche questa volta, a strappare la maggioranza assoluta. Un po’ perché sta facendo una campagna elettorale intelligente, nascondendo l’aborrito Medvedev e mettendo in vetrina Lavrov (che non sembra molto a suo agio nella parte di testimonial) e Shoigu (molto più brillante), capilista del partito. Un po’ perché non sono mancate le “mancette” pre-elettorali, sotto forma di pagamenti straordinari di 10 – 15 mila rubli allo “zoccolo duro” del putinismo, pensionati e militari. 

Ma soprattutto perché la situazione, in realtà, non è mai stata disperata. Infatti le ricerche demoscopiche russe, a differenza delle nostre, inseriscono nel conteggio anche gli indecisi e gli astenuti (di modo che un 27% corrisponde, nei sondaggi, a un 42% di voti validi), mentre la soglia di sbarramento e il sistema misto consentono al primo partito di fare il bottino di seggi uninominali, il che, secondo il centro studi Zentr Politicheskoj Kon’iunkturj, stando alle rilevazioni del 27 agosto, assicurerebbe a Russia Unita una tranquilla maggioranza di 293/305 seggi su un totale di 450. 

Certo, il confronto con il risultato del 2016 (una trentina di seggi e una dozzina di punti percentuali in meno) non sarà incoraggiante. Ma non si tratterà nemmeno dello tsunami in cui alcuni commentatori nostrani sperano. Senza considerare il fatto che le formazioni di “opposizione istituzionale” che supereranno la soglia di sbarramento (saranno tre: Partito Comunista, Russia Giusta di Mironov e LibDem di Zhirinovsky), esprimono tutte posizioni più oltranziste (rispetto ai rapporti con l’Occidente), di quelle di Russia Unita, così che un eventuale (improbabile) governo “di coalizione” avrebbe, da un punto di vista atlantico, dei connotati ancora più sgradevoli.

L’importanza dell’ evento non va sminuita, ma comunque nemmeno esagerata. La Duma è un organismo umiliato non da Putin, ma dalla Costituzione del dicembre 1993, varata dal “nostro” amico Eltsin quando le ceneri del precedente organo rappresentativo, il Soviet Supremo della Federazione Russa, erano ancora calde. Una camera impotente e un Presidente autocrate al tempo piacevano ai leader occidentali : si trattava di “mettere al sicuro” le riforme e il mercato da quel “covo di  neocomunisti e nazionalisti” che era, al tempo il Parlamento russo. Quello che si va ad eleggere sarà quindi un organo debole (come, del resto, tutti quelli dal 1993 in poi), che riproduce un sistema partitico asfittico) e (con la sola possibile eccezione del partito di Zuganov) poco partecipato, risultato di elezioni con scarsa risonanza mediatica e dibattito pubblico.

La mattina del 20 settembre, quindi, non avremo tanto una indicazione di valore programmatico, quanto una misurazione della tenuta del sistema Russia: un indicatore della disponibilità delle istituzioni, dei media, delle autorità locali e poi, certo, anche, dei cittadini, ad andare ancora avanti, in nome di quella stabilità che rappresenta il vero tratto distintivo della stagione putiniana. Dopo trent’anni anni di errori e correzioni, di successi e fallimenti, di ripiegamenti e avanzate, di entusiasmi e disillusioni, la Federazione Russia sta trovando un proprio baricentro. Trent’anni è un periodo lungo se misurato sulla vita umana, ma molto corto per i ritmi di un organismo socio-culturale millenario che deve riorganizzarsi in un nuovo contenitore statale. A che punto è, a metà del quarto mandato di Putin, la rifondazione dello Stato russo? Valutiamolo sotto alcuni parametri: politica (interna ed estera), società, ideologia, questione nazionale, economia.

 Il dilemma forse più importante di tutti (integrarsi nel sistema di organizzazioni sovranazionali occidentali o lottare per un posto al sole rivendicando un nuovo sistema di governance multipolare) è stato sciolto definitivamente con la crisi ucraina: la Russia vuole essere un centro decisionale autonomo. Tratto il dado di questo fatale dilemma, tutti gli altri pezzi del puzzle si stanno componendo a cascata. La scelta subito conseguente è stata: “fuga dall’Occidente”. Non solo dagli Stati Uniti, ma anche dall’Unione Europea. Riducendo al lumicino i rapporti  diplomatici (si veda la disastrosa visita dell’Alto Rappresentante Borrel a Mosca), e rassegnandosi al raffreddamento anche di quelli economici, ancora troppo intensi per essere troncati del tutto. L’Unione Europea, infatti, rappresenta ancora il 37% dell’interscambio commerciale della Federazione Russa (contro il 20% della Cina), ma la percentuale era del 42,5% nel 2019 e di oltre il 50% nel 2013. E se due anni fa gli scambi ammontavano a 262 miliardi di dollari, l’anno scorso hanno di poco superato i 190).

A Occidente non c’è più alcun rapporto privilegiato: non c’è quindi nemmeno più per trattare con i guanti quelli che il Cremlino vede (spesso a torto, ma a volte anche a ragione) come meri agenti di influenza straniera. È da qui che nasce la liquidazione della dissidenza liberale: l’arresto di Navalny, la dichiarazione della sua organizzazione (FBK) come “organizzazione estremista”,  l’espatrio delle sue collaboratici Sobol e Yarmysh, ma anche l’inserimento di una trentina di giornalisti e testate (fra cui Meduza, Proekt e Dozhd) nell’elenco degli “agenti stranieri” che ne rende estremamente difficile la prosecuzione dell’attività. Eliminata la frangia “movimentista” della galassia liberale, restano i media con agganci nelle istituzioni (Ekho Moskvi, Kommersant, Vedomosti) e alcuni esponenti politici referenti storici di questo orientamento, che però sono stati o integrati (Kirienko) o marginalizzati (Kudrin) o entrambi (Chubais, Kudrin). In ogni caso queste iniziative censorie impoveriscono il dibattito e il pluralismo informativo ma, agli occhi di Putin, sono giustificate da una superiore esigenza di sicurezza della Stato, che va tutelato da ogni rischio di ripetere le traumatiche “rivoluzioni” del passato, senza le quali (crede il Presidente) oggi la Russia avrebbe 500 milioni di abitanti invece di 146. 

Del resto è lecito chiedersi quale sarebbe il peso politico dei liberali anche in una Russia più aperta e democratica se è vero, come è vero, che i Russi chiedono alla politica più Stato e più assistenzialismo, non più “riforme”. Per di più tale richiesta viene, si badi bene, indistintamente, dagli elettori di tutti gli orientamenti politici, compresi gli stessi simpatizzanti liberali).

Sempre dalla sfida agli Stati Uniti per un diverso assetto internazionale (sfida che in origine nulla aveva di ideologico) nasce la retorica dei “valori tradizionali”, articolata su due pilastri: l’ortodossia e la vittoria nella guerra patriottica. L’idea multipolare si fortifica e giustifica nella teoria della molteplicità delle “civiltà” e della alterità di quella russa rispetto a quella europea (già portate alla ribalta da intellettuali come N. Ja. Danilevskij e K. N. Leontev in un periodo storico, gli ultimi anni dell’Ottocento, spesso rievocato come “età dell’ oro” da Putin. A sua volta teorizzare l’esistenza di molteplici civiltà porta alla “riscoperta” dei “valori tradizionali” che distinguono la propria dalle altre. All’inizio tutto questo era finalizzato all’ obiettivo strategico. Con il passare del tempo, però, i richiami conservatori si stanno trasformando da mero strumento di soft power internazionale e di consenso interno in una vera e propria ideologia di Stato che, soprattutto sotto il versante dei rapporti con la Chiesa, finisce per condizionare il decisore politico il che appare evidente, ad esempio, dalle tinte fortemente ideologiche assunte dalla nuova Strategia di Sicurezza Nazionale.

Un ruolo, se pure indiretto e difficile da quantificare, ha giocato, nello spingere la Russia verso il conservatorismo, anche l’establishment occidentale, e l’influenza esercitata sulla cultura russa dallo scontro, in corso dalle nostre parti, fra gli opposti pregiudizi di uno schieramento progressista che tende a demonizzare Mosca rappresentandola (secondo la più tipica profezia che si auto avvera) come una sentina di oscurantismo e uno conservatore, che la idealizza specularmente, immaginandola come la proiezione utopistica delle proprie attese.

La crisi con l’Occidente e la svolta a Ovest di Kiev hanno poi aiutato la Russia a sintetizzare un compromesso nell’eterno dilemma fra vocazione nazionale e imperiale. Semplifichiamo: visto che senza l’Ucraina la Russia non potrà tornare impero, sarà nazione. Nonostante Putin non perda occasione per ribadire la natura ”multinazionale” della Russia sulla base di una dottrina delle nazionalità enunciata nel 2012 e sempre coerentemente richiamata, l’impressione è che la Russia di oggi si comporti in larga parte come uno Stato nazionale, anche se molto tollerante con le élite dei popoli minoritari. I Russi (questo principio è stato costituzionalizzato dalla riforma del 2018) sono l’etnia fondativa dello Stato, attorno ai quali si raccolgono gli altri popoli della Federazione, i Rossiyanini, che stanno un gradino più sotto, non giuridicamente, ma moralmente. Un gradino ancora sotto (già al di fuori del nuovo perimetro statuale) si trovano Ucraini e Bielorussi, in quanto nazioni culturalmente affini ai Russi. Costoro, insieme ai Russi della diaspora, sono incoraggiati a stabilirsi in Russia al fine di consolidare la “matrice” russa dello Stato e di fronteggiare la crisi demografica, tramite procedure di naturalizzazione semplificate.

Esiste certamente l’ambizione a un maggior livello di integrazione con la Bielorussia e con l’Ucraina. Gradualmente, però, si prende atto dell’ormai incolmabile distanza di almeno una parte del popolo ucraino, per cui ai proclami di unità (si veda il lungo articolo di Putin in proposito) corrisponde una politica più pragmatica, finalizzata all’obiettivo minimo di tenere Kiev fuori dalla NATO. Le organizzazioni regionali promosse da Mosca (a partire dallo Stato Riunito) non esprimono ambizioni “imperiali” (se mai egemoniche) e sono dirette a Paesi che, pur condividendo una storia comune, sono ormai irrimediabilmente “altro”. Si tratta, quindi, di strumenti di politica estera, atti a consolidare l’influenza e a tutelare la sicurezza di una Russia che ormai, messa da parte la dimensione imperiale, si riconosce (con la sola eccezione della Crimea) nei confini del 1991).

Quanto all’ economia, la vulgata occidentale si compiace di dipingere il Paese come una “pompa di benzina che si crede uno Stato”, per stigmatizzare lo storico duch desease che affligge il Paese. E in effetti, dopo anni di sforzi, la quota di budget statale derivante dall’export energetico, per quanto scesa negli ultimi tre anni dal 46% al 36%, rimane preoccupante). Gli analisti liberali, in Russia e all’estero, denunciano l’eccessivo peso del comparto statale nell’economia, e la necessità di riforme, privatizzazioni e di una linea di politica estera più accomodante, che consenta la rimozione delle sanzioni, requisiti tutti giudicati indispensabili per sostenere una crescita almeno in linea con la media mondiale. E in effetti nel secondo decennio del secolo l’economia russa non è riuscita a sostenere la straordinaria crescita del primo, alternando flessioni a stanchi recuperi. Ma ci sono anche elementi incoraggianti. Prima di tutto la Russia ha imparato, negli anni, a gestire la sua dipendenza dalle materie prime, sia con il sistema dell’accumulo nel Fondo di Riserva delle eccedenze negli anni di abbondanza, sia perfezionando un meccanismo di controllo del prezzo del greggio attraverso la costruzione di una relazione preferenziale con l’Arabia Saudita (Opec + Russia). Quanto alla strategia di crescita la Russia, come la Cina, cerca di evadere la “trappola del reddito medio” collocandosi ormai stabilmente nel gruppo di potenze che hanno optato per un sistema “capitalistico di Stato” e giudicare tale scelta da una prospettiva liberale di mercato è, ovviamente, arbitrario: alla fine dei conti sarà la storia, come sempre, a premiare i vincitori e punire i vinti). Un punto a favore della Russia è, per il momento, la sua buona ripresa dalla crisi Covid: il prodotto nazionale lordo del 2019 è stato già raggiunto nel secondo quarto del 2021.

Resta dunque, alla costruzione dello Stato russo, una sola, pesante incognita: la successione. La stanchezza mostrata da Putin nel corso della crisi Covid, una modesta flessione (specie fra i più giovani) negli indici di gradimento, un sentimento serpeggiante di endemica insoddisfazione per piccoli e grandi disservizi locali, l’accendersi qua e là di occasionali focolai di protesta, la delega in bianco lasciata, in occasione della crisi Covid,  ad autorità locali che spesso si sono spinte fino a seguire politiche opposte a quelle predicate dalla presidenza (valga per tutti il caso dell’ obbligo vaccinale) rappresentano altrettanti segnali di un indebolimento della verticale di potere, campanelli di allarme ben più preoccupanti dei soliti strepiti delle classi medie urbane. La successione, portando nuove energie al vertice e un avvicendamento della classe dirigente, potrebbe aiutare a superare questa risacca.

E sarà proprio la successione (che avvenga nel 2024 o più tardi), non certo le prossime elezioni parlamentari, il vero banco di prova delle scelte effettuate fin ora. Si tratta di un ostacolo molto impegnativo. La Federazione Russa, infatti, è ancora un sistema governato con metodi largamente informali, sistema i cui antecedenti storici (Unione Sovietica, Impero Zarista, su su fino a Bisanzio) hanno molto faticato a codificare meccanismi di avvicendamento al vertice incruenti. Sarà anche il caso della Federazione Russa, visto che il precedente di Boris Eltsin, essendo molto peculiare, non stabilisce una norma sufficientemente sicura. Al vertice dello Stato sono collocati personaggi che devono il potere a un familiarità pluridecennale con Putin, spesso risalente agli anni di San Pietroburgo o addirittura del KGB (politici come Lavrov, Patrushev, Shoigu, Novak ma soprattutto “imprenditori di stato” come Rotenberg, Chemesov, Setchin, Gref, Miller): il sostituto di Putin dovrà garantir loro, e agli interessi che rappresentano, la permanenza o almeno una soddisfacente uscita di scena. 

Poi ci sono gli apparati, civili e militari. I mille terminali burocratici, dalle competenze spesso sovrapposte e talvolta contrapposte, costruiti per trasmettere al centro le mille esigenze e i mille interessi delle varie articolazioni della società. E le amministrazioni locali che, dopo il Covid, si chiedono se non sia possibile ottenere autonomia anche su altri dossier. Solo alla fine, dopo un lavorio di trattative e compromessi, regolamenti di conti e prove di forza (se tutto andrà bene) incruente e dietro le quinte, il popolo sarà chiamato a convalidare la scelta. Un processo, come si vede, delicatissimo, che sarebbe bene portare avanti in un clima internazionale il più possibile disteso. Un lusso che difficilmente la Russia potrà permettersi. 

Quanto alle “democrazie occidentali” (a loro volta in profonda crisi), si trovano oggi alle porte un grande Stato ostile (a sua volta alleato al colosso cinese) che si regge non sul “mercato” ma su una verticale di potere burocratica, illiberale e imbevuta di ideologia conservatrice. Sarebbe dignitoso risparmiarsi isterie ed ipocrisie essendo questo esattamente il risultato a cui abbiamo lavorato per decenni. Kennan e Soros ci avevano avvertito.

di Marco Bordoni

fondatore e curatore del canale Telegram “La mia Russia” (t.me/lamiarussia)

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