di Marco Bordoni – Un paio di settimane fa, nell’incantevole scenario della reggia di Gatchina, nei sobborghi pietroburghesi, Putin ha inaugurato un monumento ad Alessandro III. Nell’elegante palazzo progettato per Grigorj Orlov da Antonio Rinaldi, lo zar cosiddetto “pacificatore” trascorse gran parte del proprio regno. Non è il primo omaggio di Putin ad Alessandro: nel 2017 aveva tagliato il nastro di una statua simile, piazzata in Crimea, nel palazzo di Levadia, e ne aveva elencato i successi: “Autorità internazionale della Russia rafforzata con la fermezza non con le concessioni, rapida crescita economica di pari passo con un riarmo che ha rafforzato l’esercito e la marina, fioritura di cultura e arte, grazie al richiamo alle tradizioni”.
Non è un mistero che Putin nutra una vera ammirazione per il “pacificatore”, ma pochi ci hanno fatto caso dalle nostre parti. Eppure è curioso: mentre i nostri commentatori lo accostano di solito a grandi e terribili guerrieri e modernizzatori come Ivan IV, Pietro I o Stalin (ma ne conoscono altri?), Putin sembra immedesimarsi in un sovrano di un periodo di relativa decadenza, cui si oppose invano azzerando, da un lato, le pur timide riforme paterne (giudicate troppo audaci) in una vana rincorsa al passato e rendendo, dall’altro, la Russia, sul piano economico e militare, abbastanza temibile da poter ottenere una pace indispensabile senza mendicarla.
Un regno, quello Dib Alessandro III, segnato da due date fatali e luttuose: la prima è quella del 12 marzo 1881, quando suo padre e predecessore, l’omonimo zar “liberatore”, venne dilaniato dalle bombe di narodnaja volja, frutto massimalista e di certo imprevisto dell’accesso popolare all’istruzione di massa e delle riforme sociali da lui stesso promosse. Sulle rive insanguinate del canale Griboedov, dove era saltata in aria la carrozza del padre, il nuovo zar elevò la magnifica cattedrale “del Salvatore sul sangue versato” e anche, idealmente, l’edificio della propria politica, tesa a fare convergere con le buone o con le cattive due opposti apparentemente inconciliabili: autocrazia e modernità.
Imponente e massiccio, con il suo metro e novanta di statura, ma descritto come un orso di buon carattere, dalle abitudini ostentatamente semplici, Alessandro III era incline ai passatempi popolari: boscaiolo e pescatore a tempo perso, giustificava i propri ritardi (leggendari come quelli di Putin) con questi suoi hobby: “Quando lo zar pesca, l’Europa aspetta” diceva agli ambasciatori occidentali.
La sua politica sta in un guscio di noce: all’ombra del Procuratore del Santo Sinodo Pobedonotsev e di ministri di orientamento ultra conservatore, piazzati nei posti decisivi, la macchina dello Stato, grazie all’onnipresente polizia politica, si dedicò ad una furiosa repressione del dissenso, resa possibile dal Regolamento sulla Protezione Rafforzata del 1881. Le organizzazioni terroristiche e radicali vennero stroncate, le aree sociali e culturali di potenziale dissidenza (prima di tutto le Università) sterilizzate e sospinte verso uno stato emotivo magmatico di apatia politica e di apparente rinuncia, che si sarebbe mutato in miscela esplosiva sotto il regno del figlio.
Allo stesso tempo, sotto la cappa della restaurazione e di un apparente immobilismo, la macchina dello Stato iniziò a mostrare tendenze più moderne, inclinando verso un nazionalismo all’europea, piuttosto estraneo alla tradizione russa (centrata sul principio di legittimità invece che su quello di appartenenza nazionale) e verso l’accentramento amministrativo. Mostrando dunque una nuova faccia alle minoranze etniche e religiose, anche a quelle fino ad allora coccolate e fedeli, come i Tedeschi del Baltico e gli Armeni, improvvisamente discriminate e bersagliate da politiche di russificazione forzata. Come pure a suo modo moderna era la cura che Alessandro III metteva nella promozione della propria immagine, quella di “uno zar slavofilo” così lo descrive Walichki, “con una lunga barba da contadino e una voluta stilizzazione in spirito popolare ed ortodosso”. Ma soprattutto alla modernizzazione aspirava il poderoso sforzo di infrastutturare e industrializzare il Paese, che ottenne anche buoni risultati, con il decisivo apporto dell’intervento statale e dei capitali francesi.
E poi c’è l’altra data fatale, quella del 20 maggio 1887, quando l’ultimo gruppetto di rivoluzionari, intento a progettare l’ennesimo tirannicidio, venne scoperto e impiccato. Fra loro un altro Alessandro, Ulianov, sulla cui tomba il fratello, Vladimir, giurò vendetta contro la famiglia imperiale. Più tardi, con il soprannome di Lenin, fu capace di realizzare il proprio sogno rivoluzionario e ottenere vendetta sui Romanov, guadagnandosi però il disprezzo del suo successore e omonimo Putin, il quale, ultimo anello nella catena di odi incrociati, non sa perdonargli (“ha piantato una mina sotto il nostro Stato”) di aver concesso alle repubbliche federate diritto di secessione (parte seconda, capitolo secondo, della Costituzione sovietica del 1924).
Ma torniamo a Putin e Alessandro III. Aver perso nell’ immobilismo anni preziosi, rinviando la cura delle piaghe sociali (fra le tante: il coma ormai irreversibile della grande nobiltà, il cronicizzarsi della questione contadina) mentre la Russia seguiva, sulla scena internazionale, una china discendente che l’ avrebbe portato di lì a poco ad una crisi irreversibile, non parrebbe candidarlo alla palma di governante modello (e men che mai a modello per un capo di Stato del XXI secolo) ma Putin la pensa diversamente. La figura dello zar, ha detto a Gatchina, è stata controversa a suo tempo, “ma oggi possiamo affermare con certezza che la sua era ci offre un esempio di miscela naturale ed armoniosa di trasformazioni su larga scala tecnologiche, industriali e amministrative e lealtà alle tradizioni nazionali, alla cultura ed alle origini”.
Fra Putin e il Romanov ci sono comunque due grandi differenze. La prima è la traiettoria. Alessandro III giunse al potere già imbevuto di ideali conservatori e reazionari. Per Putin essi sono piuttosto l’approdo di un’ esperienza originatasi in un contesto politico culturale molto diverso. Certo, alcune linee di tendenza potevano essere intraviste già prima. Limitiamoci a pochi esempi. Quasi tutti gli strumenti di controllo politico nella cassetta degli attrezzi di Putin risalgono a qualche anno fa: la legge “sulle organizzazioni non desiderate” e quella che attribuisce la qualifica di “agente straniero” ad alcune ONG, per quanto recentemente estese e inasprite, sono del 2012. Quella sul contrasto alle “attività estremistiche”, del 2002, è stata estesa nel 2015. Infine: la legge cosiddetta sulla “propaganda gay”, che vieta le manifestazioni pubbliche di “rapporti non tradizionali”, è del 2013. E tuttavia il momento chiave di questa lunga evoluzione è rappresentato dalla Riforma Costituzionale del 2020.
Quasi ogni disposizione emendativa della parte terza ha l’effetto di invertire la polarità liberale della Costituzione del 1993, esattamente come la riforma dell’art. 81 ha fatto con quella sociale che informava la nostra Costituzione del 1948. Nell’art. 67 bis ci sono la fede in Dio (definitiva adesione al confessionismo di Stato) e la lettura costituzionalmente consacrata della storia e dell’interesse nazionale attorno alla quale si imbastiscono reati di opinione intesi a perseguire i “negazionisti” e altre misure legislative di controllo destinate a prevenire (a torto, ma talvolta anche a ragione) ogni possibile “contagio” ideologico ritenuto pericoloso nella sfera politica, in quella informativa e in rete (lo impone l’ art. 79 bis, che Putin chiosa così: “Lo so io in che direzione vanno gli interessi del Paese: colpiremo tutti quelli che trasgrediscono la legge e ci danneggiano, ivi compresi i danni d’immagine”). Divengono allora lettera morta gli art. 13, che vieta l’ideologia di Stato e 28, che stabilisce la separazione fra Stato e Chiesa. L’ art. 72 costituzionalizza la famiglia tradizionale.
Cosa resta per completare il quadro? Il riaccentramento amministrativo (art. 103, 129, 131 e 132), per mettere in riga le spinte centrifughe delle periferie (vedi il caso Furgal). Il nazionalismo grande russo, insinuatosi nel riformulato art. 68, che assegna ai Russi lo status di “popolo fondativo” in quanto tale “più uguale degli altri”: un concetto insidioso, in grado di compromettere le tesi di Putin sulla questione nazionale, enunciate nel 2012, che peraltro hanno sempre trovato applicazione più all’interno che sulla scena internazionale, ove la Russia agisce già da tempo, come è logico che sia, in qualità di tutore degli interessi dei Russi etnici residenti all’ estero.
La riforma costituzionale del 2020 rappresenta quindi un approdo cruciale. Essa introduce e giustifica un quadro istituzionale totalmente nuovo, in cui lo spettro delle opzioni politiche ammesse è limitato con il “taglio” di tutto ciò che può, anche solo in teoria o indirettamente, offrire agli avversari del Paese una sponda utile al suo indebolimento. I margini del dissenso radicale, quindi, si riducono drasticamente, non solo per l’opposizione liberale, ma anche per il Partito comunista, stretto fra la necessità di una piattaforma più radicale e l’appesantirsi delle misure repressive.
Il deteriorarsi del clima interno, comunque, non è affatto un unicum sulla scena internazionale: tutt’ altro. Assistiamo, infatti, a una situazione paradossale, nella quale hanno ragione sia i critici di Putin, che lamentano l’indebolirsi delle istituzioni rappresentative e di garanzia in Russia, sia il Presidente russo che, con grande efficacia, non manca mai di rinfacciare ai partner occidentali che anche la loro tanto sbandierata “democrazia” è ridotta a vuoto parlamentarismo, a un sistema meramente formale da sottrarre ai cittadini il diritto di influenzare le scelte strategiche. Non è questo il luogo per esaminare nel dettaglio i tanti mali che ormai minano il cosiddetto “mondo libero”: aumento verticale delle disuguaglianze, sottrazione delle competenze degli Stati nazionali a favore di organismi sovranazionali “al riparo dal processo elettorale”, accentramento del sistema informativo, pluralità politica e ideologica formale (in fin dei conti puro marketing) cui corrisponde un generale appiattimento sul cosiddetto “pensiero unico” e su un’agenda predeterminata. In questo contesto è sempre più difficile, per le elite, coltivare e riprodurre la convinzione delle masse di vivere “dalla parte giusta” del mondo, su cui far leva per fare accettare i “sacrifici” necessari a sbarrare il passo al cattivo di turno.
E questo ci porta alla seconda differenza fra Putin e Alessandro III. Il “regno” del primo si conclude, lo abbiamo visto, nel punto in cui quello del secondo iniziò. Ma il contesto internazionale è molto diverso. L’autocrazia conservatrice si rivelò una formula inadatta a risolvere i problemi atavici della Russia e a competere con i regimi borghesi occidentali nel ventesimo secolo. Ma varrà lo stesso per il cosiddetto “capitalismo illiberale” o “capitalismo di Stato” che fronteggia il “capitalismo neoliberale” nel ventunesimo?
A un sistema sociale spietato, raccolto intorno alla cosiddetta “società civile” ovvero, per dirla in maniera più prosaica, intorno al capitalismo finanziario atlantico, sostenuto dai ceti più aggressivi della società, dalle megalopoli, dalle categorie impiegate nella creazione del consenso e da quelle maggiormente esposte all’egemonia e alla manipolazione culturale (i giovani, le minoranze), ideologicamente incline all’ individualismo e all’atomizzazione sociale, si contrappone un altro modello di sviluppo, con diverse classi di riferimento. Prendiamo, appunto, la Russia: della politica protezionista (sanzioni ed embargo) e monetaria (svalutazione) soffrono soprattutto le classi medie urbane, i cui esponenti aspirano ai prodotti di importazione e guardano con interesse a Occidente, mentre i produttori locali, spesso partecipate statali non in grado di reggere alla concorrenza internazionale, assieme al grosso della società, i dipendenti pubblici, i pensionati, i precari, nonostante la flessione del potere di acquisto dei redditi reali, e pur vedendo allontanarsi il sogno di una vita agiata (solo un russo su tre dichiara di avere dei risparmi) continua a sostenere Putin, in cambio di livelli minimi di protezione sociale guarda caso assicurati proprio dalla nuova Costituzione (art. 75, 114). Al centro di tutto lo Stato, confermato nel suo ruolo di arbitro economico e politico, ovvero (cerchiamo di essere anche qui più prosaici) la burocrazia, gli apparati di sicurezza, le forze armate.
Nessuno sa quale formula verrà alla fine premiata dalla storia. Di certo l’ erosione del vantaggio (economico, politico, culturale) accumulato dal cosiddetto “Occidente” sul resto del mondo, vantaggio che ancora pochi anni fa sembrava incolmabile, è vistosa e sembra anche accelerare. Non è azzardato immaginare che nel mondo di domani Alessandro III possa prendersi la sua rivincita postuma.
di Marco Bordoni
fondatore e animatore del canale Telegram “La mia Russia”
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