E insomma, anche questa volta Russia Unita l’ha sfangata e potrà continuare a controllare la Duma. Diamo un’occhiata ai dati, senza le isterie degli pseudoesperti che, quando si tratta di Russia, spuntano come i funghi. Mica c’è stata tanta differenza, rispetto alle elezioni del 2016. Allora (2016) affluenza al 47,88%, Russia unita al 54,18% e il Partito Comunista al 13,34%. Oggi (con il 99,77% dei voti scrutinati), Russia Unita al 49,84% e i comunisti al 18,95, con l’affluenza intorno al 52%. Chi parla oggi di buona affluenza dimentica che quella del 2016 fu la più bassa della storia, in Russia. E chi sottolinea che Russia Unita è andata in crisi, dimentica quanto contasse nel 2016 l’effetto traino della crisi in Ucraina e Crimea. E trascura il fatto che il 5% guadagnato dal Partito Comunista in questo voto è in gran parte dovuto a un trasferimento di consensi da Russia Unita. Assai più radicale del partito di Putin, per esempio nei rapporti con l’Occidente, quello di Zyuganov rappresenta la contestazione (da destra) istituzionale. Gli scontenti votano Partito Comunista sapendo che, in ogni caso, Zyuganov alla Duma voterà con Putin. E dubito molto, come scrive anche Marco Bordoni nel suo articolo, che il leader dei comunisti metterà a rischio l’attuale buona sorte per trasformarsi in un oppositore vero.
Ma queste, alla fine, sono le minutaglie. La domanda vera è: ne valeva la pena? Pensiamo a tutto ciò che Vladimir Putin si è acconciato a fare per evitare al partito regno vero. Silenziate (o quasi) tutte le voci critiche, anche a costo di trasformare Aleksey Navalny in un’icona del libero pensiero e di fargli una pubblicità mondiale pur di cacciarlo in galera. Approvate tutte le leggi che possono contribuire a uniformare il pensiero politico e la ricerca storica. Voto online, con i dubbi del caso (vi ricordate gli Usa e le polemiche sul voto per posta?) a proposito di brogli e truffe, e le lotterie con automobili e appartamenti da sorteggiare tra gli smanettoni di Internet. Persino le mancette per-elettorali, le mazzette di rubli elargite a pensionati, poliziotti, militari. I (più o meno liberali) di un qualche spessore emarginati e scopati sotto il tappeto. Che altro doveva fare, pover’uomo?
Il problema è che tutto questo è servito per conservare la rendita a Russia Unita, ma solo a quello. Certo non è bastato per nascondere la realtà di una popolazione sempre meno soddisfatta e partecipe, di una parte di Russia che, semplicemente, sta mollando gli ormeggi. Un po’ di anni fa si diceva che il patto sociale nell’Urss fosse questo: voi fate finta di governare e noi facciamo finta di lavorare. Ecco. Adesso c’è una Russia che ha preso atto di una politica che non riesce a evolvere, che non fa troppi danni (la resistenza economica al Covid ne è un buon esempio) ma paga la stabilità con un immobilismo che ha prodotto anni di stagnazione e lento calo dei redditi, che ha coperto con l’orgoglio nazionale e con una politica estera in contropiede la progressiva riduzione degli spazi di influenza in quella che fu “l’Europa dell’Est”. Una Russia di giovani che se ne fregano, di anziani ridotti nell’orizzonte delle pensioni, di piccolo-borghesi che sognano di piazzare il figlio in un ufficio statale. E che diventano, pian piano, una zavorra sempre più pesante per il dinamismo del Paese e, non ultimo, per le casse dello Stato.
Come si diceva, Putin ha fatto il diavolo a quattro per proteggere Russia Unita e proseguire su questa strada. E poiché pare piuttosto acclarato che il Presidente non è uno stupido, viene da concludere che la quiete della verticale del potere sia solo apparente e che sotto la superficie bollano contrasti che il Cremlino può tenere a bada solo cambiando… nulla. Rimandando di voto in voto al 2024, quando Putin in teoria (ma proprio in teoria) dovrebbe concludere il quarto (secondo consecutivo) mandato presidenziale e avviare un ricambio che tutto sommato gli altri vogliono meno di lui e temono molto più di lui.
Fulvio Scaglione
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