Alla fin fine, la grande politica internazionale è una cosa semplice. È complicata nelle tattiche, nelle manovre, nei trucchi. Lo è molto meno nelle strategie. Alla vigilia del summit tra Joe Biden e Vladimir Putin questa realtà si è affermata con lampante chiarezza. La strategia degli Stati Uniti è quella tipica di tutti gli imperi: divide et impera. La nuova amministrazione prima ha molto lavorato per dividere l’Europa dalla Russia, tentando fino all’ultimo di minare anche il ridotto della Germania e della sua ostinazione nel mantenere con Mosca l’accordo sul gasdotto Nord Stream 2. Poi, dopo aver dichiarato in ogni dove che la Russia era come sempre l’impero del male assoluto (Possiamo dire che Putin è un assassino? Sì sì), è passata a cercare di dividerla della Cina, che è il vero avversario strategico degli Usa, dicendo quanto sarebbe bello avere un buon rapporto con Putin (“Un avversario degno”) e i suoi hacker-sicari-torturatori. Non a caso Biden si presenta a Ginevra con un dono ben augurale: la dichiarazione che l’Ucraina non è pronta a entrare nella Nato. Il che, detto di passaggio, dimostra (se ve ne fosse stato bisogno) che nella strategia americana Kiev è una pedina da giocare secondo necessità. Molto più di quanto lo sia la Bielorussia per la Russia. Il che rende plasticamente la differenza di potere reale tra i due Paesi.
Niente di strano. Come si diceva, è dai tempi degli ittiti che funziona così. Bisogna però vedere che cosa faranno gli altri. Putin si fiderà delle aperture di Biden? Ho qualche dubbio. In Russia le cose non vanno bene ma non vanno nemmeno così male come speravano a Washington e dintorni. In più, le entrate da gas e petrolio sono sempre fondamentali per il bilancio dello Stato russo ma in percentuale contano meno di prima, il che diminuisce la dipendenza dall’estero, mentre in Europa la richiesta di gas russo è in crescita. Ci sono realtà e vincoli che nessuna decisione politica presa a tavolino può illudersi di annullare. Insomma, un dialogo tra Mosca e Bruxelles, per quanto difficile, resterà comunque in piedi. Nello stesso tempo, pare difficile che Mosca rinunci alla back door offerta dalla Cina. Che peraltro, da un certo punto di vista, è un’uscita di sicurezza per la stabilità di molti Paesi.
Nel 2020 l’economia cinese è stata l’unica al mondo a dare segnali di crescita (+ 2%). Nel 2021 i pianificatori di Pechino hanno programmato un +6%, occhieggiando in realtà a un 8% del tutto realistico, tanto che anche il Fondo Monetario Internazionale ipotizza un +7,9%. Virus o non virus, nessuno, nemmeno gli Usa dell’economia rilanciata da Trump e rifinanziato da Biden, può vantare dati come questi. Frenare la Cina, o peggio azzopparla (sempre ammesso che sia possibile), vorrebbe dire infliggere lo stesso trattamento a una lunga serie di economie locali o regionali. Dare una lezione a Pechino senza generare troppi effetti collaterali sarà, per Biden e alleati, un equilibrismo non da poco.
Il che, ovviamente, vale anche per l’Unione Europea. Nei soli primi dieci mesi del 2020, l’anno orribile della depressione da Covid19, il valore dell’interscambio commerciale tra Europa e Cina è stato di 477 miliardi. La Cina è il terzo recettore delle esportazioni tedesche e il secondo esportatore in Germania. È il quarto esportatore in Francia, il terzo in Italia, il terzo in Spagna, e così via. C’è da farsi male. E ho qualche dubbio che la causa degli uiguri basterà a convincere gli industriali e i consumatori europei a guadagnare di meno e a spendere di più.
Questo non significa che non ci sia del lavoro da fare. Le pratiche commerciali e finanziarie della Cina sono state fin troppo spesso sotto un livello minimo di correttezza e l’accesso al suo mercato è assai meno libero di quanto lo sia il nostro. Quasi tutto, però, dipenderà da Biden e dalla misura del suo pragmatismo. Se gli Usa cercheranno un accordo conveniente per tutti, provando ad affermare nel contempo un set di regole più adeguato alla civile convivenza economica, le cose andranno in un verso. Se invece Biden si farà sedurre dalla nostalgia del buon tempo antico, del “secolo americano” in cui gli Usa decidevano (dal prezzo del petrolio ai Governi in America Latina alla quotazione dell’oro, per dire) e gli altri si adeguavano, allora ne vedremo delle brutte. L’irritazione americana per l’accordo sugli investimenti (poi sospeso) raggiunto tra Ue e Cina pochi mesi fa desta in questo senso qualche apprensione.
Il che vale anche per Xi Jinping. Per molti anni la Cina ha goduto di una sorta di extraterritorialità. Era un Paese povero che cresceva, l’economia tirava ma la politica estera di Pechino non era mai troppo ambiziosa. Procedendo a fari spenti, la Cina è cresciuta in modo impressionante. E nel frattempo ha dichiarato il proprio interesse strategico in tutto il mondo, dall’Asia (ovviamente) all’Africa all’Europa. La rendita di posizione è finita ed è stata proprio la politica assertiva di Xi Jinping a decretare tale fine. Il leader cinese ora deve prendere atto della nuova realtà che tanto ha contribuito a costruire. E decidere: portare davvero la Cina nell’agone internazionale, rischiando nel confronto con gli Usa e con gli altri ma offrendosi la possibilità di diventare una vera potenza; oppure andando allo scontro, difendendo le sue posizioni ma, forse, condannandosi anche al ruolo dell’eterno outsider.
Fulvio Scaglione
Be First to Comment