Gli utenti del World Factbook della Cia, rispettabilissima fonte di dati e statistiche, hanno di certo notato che i servizi segreti americani definiscono la Russia “Asia Centrale” mentre l’Ucraina senza esitazioni viene chiamata “Europa”. Un piccolo assurdo geografico che cancella la Russia europea fino agli Urali, ovvero il 40% del territorio della Federazione dove peraltro vive il 60% dei 142 milioni di cittadini russi. Ma soprattutto un’agnizione e un ripudio, un giudizio politico per ammettere ed escludere. È buffo. E se non fosse il minuscolo ma inconfondibile segno di un dramma politico e culturale farebbe persino tenerezza, questo improvviso rigurgito di guerra fredda.
Il vero problema, oggi, è che questa situazione, questa riedizione in forma cartografica del vecchio Muro, sta molto stretta a entrambi i Paesi coinvolti. Si vede lontano un miglio che l’uno e l’altro, a dispetto di Maidan, della Crimea e del Donbass, si agitano per uscire da una contrapposizione che in questi termini è insensata, per allargare lo spazio di manovra, per allentare lacci e lacciuoli che, per come sono stati disposti negli ultimi anni, rischiano ormai di tagliare la circolazione e indurre una sclerosi pericolosa. Non è certo un caso se Ucraina e Russia hanno vissuto, quasi contemporaneamente, scossoni politici chiaramente concepiti per recuperare libertà politica di movimento.
Conviene partire dalla Russia che, nella vulgata più diffusa in Europa, è descritta come un monolite dominato con le buone e con le cattive da Vladimir Putin. È piuttosto evidente, invece, che lo Zar, toccato il traguardo dei vent’anni consecutivi di potere, ha più che presente l’evidente sclerosi di quella “verticale” del governo centralistico cui cominciò a lavorare fin dai primi passi nei corridoi del Cremlino e con cui ha ricompattato una Federazione che alla fine dell’era Eltsin era in preda a fortissime spinte centrifughe. Verticale che, a ben vedere, resta il suo massimo conseguimento politico.
Potremmo persino spingerci a dire che Putin non è rimasto insensibile alle proteste di piazza degli ultimi anni. A quelle del 2011-2013, certo. Ma forse ancor più a quelle recenti organizzate dall’astuto Aleksej Naval’nyj. Che non hanno la massa critica per determinare una svolta ma sono importanti per due ragioni. Fanno discutere e fanno opinione: un sondaggio del Centro Levada, alla fine dell’estate 2019, mostrò che il 37% dei moscoviti condivideva le manifestazioni di protesta; e guarda caso, nelle elezioni locali del settembre successivo, il partito di Putin perse nella capitale un terzo dei consensi. E poi sono popolate di giovani, millennials che non hanno vissuto nell’Unione Sovietica, hanno scarsi ricordi degli scrolloni post-perestrojka e quindi non provano, a differenza dei loro genitori, alcuna gratitudine verso l’uomo e il sistema che, soprattutto tra il 2000 e il 2010, ha ridato stabilità e fiducia al Paese.
Questi giovani, chiunque si trovi al Cremlino, saranno comunque i protagonisti della Russia di domani. E con il loro slancio vergine di memorie, ben sfruttato da leader che nulla di programmatico sanno offrire oltre a un prevedibile moralismo anti-corruzione, incarnano uno dei grandi timori del leader che intanto si avvicina al 2024, scadenza del suo secondo mandato presidenziale consecutivo e quarto in assoluto, ovvero al momento del teorico passaggio dei poteri: quello di un cambiamento spontaneo, improvvisato e non controllato dal vertice, una seconda perestrojka. Putin non è Eltsin, che considerava la fine dell’Urss condizione necessaria per spingere la Russia verso il futuro. Putin è colui che nel 2005, parlando alla Duma, disse: “La dissoluzione dell’Unione Sovietica è stata la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo”. Affermazione che non fa di lui un nostalgico (altra sua frase celebre: “Chi vorrebbe la rinascita dell’Urss è fuori di testa”) ma piuttosto un realista cinico che non si fida degli eventi e, forse, nemmeno delle condizioni in cui versa il Paese che governa.
In più, Putin non può non essere conscio della grande incompiuta, per non dire del vero fallimento, dei suoi vent’anni al Cremlino, ovvero il mancato affrancamento dell’economia russa dalle esportazioni di gas e petrolio. La “guerra del greggio” stolidamente ingaggiata con il principe saudita Mohammed bin-Salman proprio mentre il coronavirus cominciava a mordere (altro segno della sclerosi di un sistema decisionale a protagonisti fissi che vanno perdendo di lucidità), con il conseguente tracollo del prezzo sui mercati mondiali, ha brutalmente ricordato quanto la Russia sia indietro nello sviluppo di settori alternativi che non siano l’agricoltura o gli armamenti. Per tenere il bilancio in equilibrio, la Russia ha bisogno che il greggio sia quotato almeno 40-42 dollari a barile. La guerra tra produttori, unita al rallentamento della produzione industriale mondiale e quindi al calo della domanda generati dalla crisi da virus, lo bloccherà a 20-23 almeno fino alla fine dell’anno. Risultato: tra l’emergenza sanitaria e sociale del 2020 e la prevista recessione del 2021, le riserve valutarie russe (570 miliardi di dollari) basteranno per soli due anni e mezzo, contro i cinque che erano stati calcolati in febbraio.
In assenza di una vera e profonda diversificazione industriale, che possa compensare i minori introiti del settore energetico, non resterà che stringere i cordoni della borsa e riattivare quella politica di austerità che Putin si apprestava ad archiviare. Con le inevitabili e prevedibili conseguenze dal punto di vista sociale.
Le cattive notizie, però, non vengono mai sole. L’età dell’oro del petrolio, tanta richiesta e prezzi alti, è alla fine. Ma sul viale del tramonto sembrano essere, a detta degli esperti, anche i giacimenti russi di più facile accesso. Compresi quelli della Siberia Occidentale che, una quindicina d’anni fa, avevano ridato grande fiato all’industria estrattiva russa. Anche ammettendo che riescano a superare ritardi strutturali e croniche inefficienze, i grandi conglomerati di Stato dovranno rivolgersi ai ben più ardui e costosi campi petroliferi del Caspio e della Siberia Orientale, per non dire dell’Artico. Oppure tentare la via dello shale oil, dove il ritardo tecnologico russo, accentuato dalle sanzioni americane ed europee, è un ostacolo quasi insormontabile. Non a caso la produzione in questo settore è ferma alla miseria di 15 mila barili al giorno, peraltro a un prezzo non competitivo.
Tutto questo per tracciare il quadro in cui è maturato il famoso discorso alla nazione di Vladimir Putin del 15 gennaio 2020, quello in cui è stato annunciato il progetto di riforma costituzionale che, se non fosse arrivato il coronavirus, avrebbe dovuto essere approvato per referendum il 22 aprile. Gli osservatori occidentali si sono concentrati sulla resistenza di Vladimir Putin al centro del sistema. La riforma elimina il limite dei due mandati presidenziali e gli offre il destro (come padre della patria, presidente dell’unione Russia-Belorussia, capo di partito, capo di un Consiglio di Stato rafforzato nelle competenze, di nuovo Presidente) di restare al potere fino al 2036, praticamente a vita. Questo era peraltro scontato. Da un lato, non si vede all’orizzonte un’altra personalità capace di tenere in equilibrio i diversi gruppi che si agitano nel cerchio magico della dirigenza russa. Dall’altro, il rating personale di Putin presso i russi ancora nel gennaio 2020 (cioè dopo riforme impopolari come quella delle pensioni) era oltre il 70%, un bel 30% sopra quello del governo. In poche parole: piaccia o non piaccia, a Mosca c’è ancora bisogno di Putin.
Concentrata in quel modo l’attenzione su Putin e su ciò che non cambiava, si è trascurato ciò che invece cambiava, e che non era poco. In primo luogo, come si sa, il Governo. Fuori i teorici del rigore fiscale e dell’austerità, dentro i tecnocrati attenti al business, uomini convinti che la modernizzazione economica vada accelerata e che ciò non possa essere fatto in uno stato di conflitto permanente con l’Occidente. I portavoce di una contestazione che viaggia sotto la pelle del sistema economico-istituzionale russo e che è viva soprattutto tra i grandi e piccoli imprenditori, quelli che nel primo quadrimestre 2019, per fare un esempio, hanno portato all’estero quasi 35 miliardi di dollari, in pratica il doppio dello stesso quadrimestre del 2018. Quelli che non credono nella dedollarizzazione dell’economia russa, che vorrebbero in Russia un ambiente più favorevole al business e agli investimenti dall’estero e all’estero porte aperte agli investimenti russi, senza sanzioni o barriere. Si può chiamarli oligarchi, imprenditori, liberali, realisti. Spesso è difficile distinguere, a volte questa o quella caratteristica si assommano nella stessa persona.
Fulvio Scaglione
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