È molto interessante la polemica improvvisamente scoppiata tra il ministero degli Esteri della Russia e Papa Francesco, a proposito di alcune delle affermazioni che il Pontefice, intervistato nella sua residenza vaticana di Santa Marta, ha fatto alla rivista dei gesuiti America. Ai russi sono dispiaciute le frasi (“When I speak about Ukraine, I speak of a people who are martyred. If you have a martyred people, you have someone who martyrs them. When I speak about Ukraine, I speak about the cruelty because I have much information about the cruelty of the troops that come in. Generally, the cruelest are perhaps those who are of Russia but are not of the Russian tradition, such as the Chechens, the Buryati and so on. Certainly, the one who invades is the Russian state. This is very clear. Sometimes I try not to specify so as not to offend and rather condemn in general, although it is well known whom I am condemning. It is not necessary that I put a name and surname”) sulla “crudeltà” delle truppe russe e in particolare su quella dei soldati che “non sono di tradizione russa, come i Ceceni, i Buriati e così via“.
Le repliche sono state numerose. Basterà qui segnalare quella di Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri russo, come al solito piuttosto ruvida: “È assurdo: fino a poco tempo fa, in Occidente credevano il contrario, e cioè che gli slavi torturavano i ceceni. Ora la posizione è cambiata di 180 gradi… (noi russi) siamo una sola famiglia, con buriati, ceceni e altri rappresentanti di un Paese multinazionale e multiconfessionale…”.
Come si vede, la polemica è andata molto oltre la lettera delle affermazioni, peraltro meno prudenti del solito, di un Papa che fin da subito ha provato a mediare tra le parti (nella stessa intervista Francesco racconta di essersi recato di persona all’ambasciata russa in Vaticano, gesto fuori da ogni protocollo diplomatico, già al secondo giorno di guerra) e ha sempre tenuto la barra dritta nell’interpretazione dei fatti e delle responsabilità. E ha anche oscurato il fatto che la Santa Santa aveva ribadito la disponibilità a mediare, ricevendo in proposito un chiaro apprezzamento da parte del Cremlino.
Accusare Papa Francesco di russofobia o addirittura di razzismo, come pure fanno alcune voci russe, è chiaramente ridicolo o strumentale, un attrezzo della peggiore propaganda. E altrettanto evidente è che il tema non è la maggiore o minore crudeltà di questo o di quello. La reazione russa è interessante perché, senza volere, le parole del Papa sono andate a toccare un punto nevralgico della costruzione politico-ideologica del ventennio di Vladimir Putin, forse il cuore stesso del putinismo.
Nell’estate del 2000, appena diventato primo ministro, Putin reagì a una serie di attentati varando l’ultima e decisiva guerra di Cecenia. Fu il massacro che sappiamo ma anche lo snodo decisivo per bloccare le molte spinte centrifughe che negli anni di Boris Eltsin avevano messo a rischio l’integrità della Federazione e riportare… il centro al centro, cioè per restituire a Mosca il pieno controllo sulle periferie. Dopo il bastone, la carota: il controllo della Cecenia affidato a ceceni, cioè la famiglia Kadyrov e una lunga serie di dimostrazioni di quanto potesse convenire la fedeltà al Cremlino, a cominciare dalla ricostruzione rapida e persino sfarzosa di Grozny. La Cecenia, che in epoca sovietica era la più povera delle Repubbliche, cominciò a ricevere fiumi di denaro pubblico, tanto da risultare nel 2021, con 402 milioni di euro, seconda solo al Dagestan, solitario primatista con 889 milioni. L’anno prima ancor meglio: 1,63 miliardi al Dagestan, 1,29 alla Cecenia. È un incontro di interessi, una compravendita, se vogliamo. Il Caucaso è tutt’altro che sottomesso ma per ora gli conviene così. E alla Russia anche.
Non possiamo qui ricostruire vent’anni di politica del Cremlino. Basterà ricordare che il primo titolo di Eroe di Russia di questa guerra è stato attribuito, il 3 marzo a un dagestano, il tenente Nurmagomed Gadzhimagomedov. E che in quell’occasione Putin fece il famoso discorso in cui disse: “Io sono un lak, un destano, un ceceno, un inguscio, russo, aratro, ebreo, mordono, osseo. Non possono citare i più di 300 gruppi etnici della Russia, sarebbe impossibile. Ma sono orgoglioso di essere martedì questo mondo, parte del potente, forte e multietnico popolo di Russia”. E mai come quest’anno è stata celebrata con enfasi la giornata dell’unità nazionale, con tanto di auguri, felicitazioni e bandierine dai cosmonauti russi della Stazione spaziale internazionale.
È su tutto questo che le parole del Papa sono andate a intervenire. Il Cremlino non poteva non scendere in campo a difendere l’onorabilità di ceceni e buriati perché non può permettersi, in una situazione complicata come quella di questi mesi, alcuna crepa nella rete che tiene insieme i diversi popoli della Federazione Russa e, quindi, la Federazione medesima. E questo è un tema che ha, tra l’altro, una forte influenza sulla conduzione della guerra. Il tanto contestato ministro della Difesa Sergey Shoigu è ancora al suo posto, crediamo, anche perché protetto dalle sue origini tuvane. E Ramzan Kadyrov può permettersi tanta libertà di critica (tra l’altro, ai danni dello stesso Shoigu e dei più alti gradi dell’esercito) proprio perché ceceno.
Il Cremlino ha molto bisogno delle periferie, in questo frangente, e non corre il rischio di offenderle. Per i primi otto mesi, la guerra in Ucraina è stata combattuta da professionisti a contratto che venivano in gran parte dalle Repubbliche non slave. E di nuovo: quando ha chiamato alle armi centinaia di migliaia di riservisti che venivano, questa volta sì, anche dalle Repubbliche più popolate da russi etnici, e quindi ha dovuto portare la notizia della guerra dentro le case dei normali cittadini russi, Putin è stato molto attento a non sacrificare vite russe inutilmente. E forse anche per questo è arrivata la ritirata da Kherson. Certamente dovuta a considerazioni strategiche e di necessità ma giustificata dal generale Surovikin, comandante in capo della spedizione in Ucraina, con l’obiettivo di non sacrificare le vite di troppi soldati. Mentre nel Donbass, dove combattono i mercenari del Gruppo Wagner e i ceceni, non c’è alcuna ritirata ma, al contrario, un tentativo di offensiva.
Fulvio Scaglione
grazie per un articolo molto interessante, come suo solito. Un erroruccio, (martedì invece che parte di), ma lo noto perchè sono figlio di maestra elementare.
E poi una difesa d’ufficio del Papa, che stimo, ma, che questa volta ha detto frasi razziste –non sono i bianchi della federazione a commettere i crimini ma i gialli, magari senza pensarci e forse per voler difendere i russi etnici dalle accuse che piovono sull’esercito russo da mezzo mondo — da una stampa però così, mi scuso per la parolaccia, sputtanata, che solo i ciechi e i sordi le possono credere.