E non c’è nemmeno un catalizzatore politico netto e preciso come furono Solidarnosc in Polonia o l’Unione Europea (più il nazionalismo) in Ucraina. Al contrario: il più attrezzato rivale di Lukashenko era quel Viktor Babariko che fu arrestato prima del voto. Un banchiere (al vertice della filiale bielorussa della russa Gazprombank) da tutti considerato vicino al Cremlino.
Allo stesso tempo, ridurre quanto avviene in Bielorussia a una «rivoluzione colorata» ispirata a suon di dollari dall’Occidente (di volta in volta, come dice lo stesso Lukashenko, da Usa, Polonia, Lituania, Ue…) è ridicolo e umilia il popolo bielorusso. La gente, per anni, ha apprezzato i risultati ottenuti da Lukashenko: il tasso di povertà che nel 2000 era del 41% è crollato al 5% di oggi, il Prodotto interno lordo pro capite è oggi il doppio di quello dell’Ucraina, l’aspettativa di vita è cresciuta da 68 a 74 anni. Il miracolo però è finito e giustamente i cittadini bielorussi ora chiedono un cambiamento.
Aleksandr Lukashenko è stato un abile navigatore della politica internazionale. Alla guida di un Paese che dipende dalla Russia al 100% per le forniture di gas e petrolio e che in Russia smercia il 41% delle proprie esportazioni, è riuscito per ventisei anni a non farsi fagocitare. Al contrario, quando il Cremlino ha provato a tirare le redini, lui si è rivolto agli Usa, fino a invitare a Minsk Mike Pompeo, segretario di Stato di Donald Trump, nell’aprile scorso. Ma la vecchia magia era finita, la crisi incombeva, lo scontento era ormai troppo marcato.
Tutto questo, però, non vuol dire che Lukashenko sia al passo d’addio. In patria, la fedeltà delle forze di sicurezza sembra garantirgli il controllo della situazione. Gli arresti (circa 10 mila manifestanti sono finiti in carcere, finora), le torture, i pestaggi delle squadracce mascherate scatenate per le strade stanno pian piano togliendo forza e slancio ai manifestanti. I leader si sono impegnati a far sì che la protesta resti pacifica, e ci stanno riuscendo. Hanno però bisogno di ottenere un qualche risultato politico. Più il tempo passa, più Lukashenko resiste senza concedere nulla, più forte diventa il rischio che subentrino stanchezza e disillusione.
Fuori dalla Bielorussia, poi, la situazione è paradossale. L’Unione Europea parla ma non agisce, nemmeno di fronte alle pubbliche bastonature. E si ha quasi la sensazione che a Bruxelles siano stati colti di sorpresa da un’insurrezione popolare, pacifica, poco nazionalista e per nulla antirussa, che, proprio perché tale, non può essere sfruttata. Basta osservare la differenza con il «caso Navalny», assai meno chiaro e in definitiva meno importante, in omaggio al quale però già si parla di far saltare il gasdotto Nord Stream 2. Stesso discorso per la Russia. Una potenza vera, attrezzata, sarebbe intervenuta per pensionare Lukashenko e sostituirlo con qualcuno più presentabile. Vladimir Putin avrebbe voluto farlo ma non ne è stato capace. Ora, nel timore di cedere altro terreno all’Occidente e in sostanza a fedelissimi alleati degli Usa come i Paesi baltici e la Polonia, si trova a sostenere il vecchio autocrate, a regalargli altri soldi, a promettergli aiuto militare.
Il risultato è che i bielorussi sono lasciati soli. Da tutti. Con il poco che chiedono, cioè elezioni vere. E con quella bandiera bianco-rosso-bianca che ricorda la Repubblica Popolare di Bielorussia durata un anno (1918-1919) e che, suprema ironia, appena due anni fa lo stesso Lukashenko, quand’era in vena anti-Putin, celebrava in televisione, mentre ora la equipara al collaborazionismo filo-nazista.
Fulvio Scaglione
Pubblicato sull’Eco di Bergamo del 21.9.2020
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