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QUALCUNO PIU’ A DESTRA DI PUTIN

Della sanguinosa sconfitta che le truppe russe hanno subito sul campo di battaglia nella regione di Khar’kiv non sono ancora chiare le dimensioni (l’avanzata ucraina procede, i russi per ora non sono riusciti a stabilizzare il fronte) ma la sostanza sì: era la prima vera grande battaglia campale e i russi l’hanno persa. Ed è già certo l’effetto: la clamorosa delegittimazione di un’intera classe dirigente, in un processo che dal basso risale fino al Cremlino e investe lo stesso Vladimir Putin.

Pare impossibile, infatti, che nessuno dei militari russi abbia notato i preparativi ucraini per l’offensiva, l’accumulo di truppe e mezzi sulla prima linea, gli spostamenti dei reparti, il lavoro delle artiglierie (soprattutto i cannoni e i lancia missili a lunga gittata forniti dagli Usa) che per settimane hanno cercato, con l’aiuto delle intelligence occidentali, di indebolire le strutture russe di rifornimento e supporto alle truppe. Essendo impossibile che tutto ciò non sia stato notato (e peraltro le autorità ucraine, politiche e militari, hanno più volte annunciato le proprie intenzioni), vuol dire che i comandi russi sul terreno non hanno preso adeguati provvedimenti, oppure non hanno trasmesso le informazioni giuste ai vertici politico-militari. Dopo una simile performance, è difficile capire come possano restare al loro posto il generale Sergey Surovikin, comandante delle truppe nel Donbass, il capo di stato maggiore Valery Gerasimov e il ministro della Difesa Sergey Shoigu. Oggi, a Mosca, convivevano due realtà parallele. Da un lato, i mille canali della Rete portavano ai russi la realtà e i drammi della sconfitta. Dall’altro, le Tv non solo si affannavano a edulcorare, e più spesso a tacere, i fatti. Peggio: mentre il fronte crollava, mostravano Putin che inaugurava una nuova ruota panoramica per il Giorno di Mosca mentre Shoigu, incredibilmente, si complimentava con il personale delle truppe corazzate per il Giorno del carrista.

Come si diceva, l’onda arriva fino al comandante in capo, al presidente Putin. Lo sfondamento ucraino sulla linea Balakliya-Kupyansk-Izyum mette la parola fine all’idea della “operazione militare speciale”, ovvero a una pretesa guerra non guerra, condotta con forze numericamente inferiori a quelle del nemico e con mezzi che, visto lo schieramento degli apparati militari europei e americani al fianco di Kiev, e le difficoltà imposte dalle sanzioni economiche, non potevano che diventare inferiori. La guerra, insomma, che ha voluto Putin.

Ho sempre pensato che Putin non avesse in testa di conquistare l’intera Ucraina, cosa palesemente impossibile, ma che avesse come obiettivo massimo quello di attestarsi sul Dnepr e annettere (o costituire in Stato vassallo) il territorio sulla riva destra. Com’era nel Seicento e oltre, quando in Ucraina a destra del Dnepr comandava la Russia e a sinistra la Polonia. Un obiettivo difficile già in partenza, per un corpo di spedizione che rendeva al nemico almeno 50 mila uomini, e irraggiungibile adesso.

Putin ora deve scegliere. Può rinunciare. Ha tanti modi per farlo, più o meno diplomatici, più o meno dignitosi. Tutti però comportano la resa rispetto al vero e fondamentale obiettivo della sua spedizione: attraverso l’Ucraina, rovesciare (magari con l’appoggio della Cina) gli equilibrii internazionali che vedono gli Usa al centro delle relazioni globali. Oppure può rilanciare, facendo ciò che molti gli chiedono da tempo: dichiarare ufficialmente guerra all’Ucraina, varare la mobilitazione generale e rovesciare sugli ucraini l’intero peso umano e tecnico di cui dispone la Russia.

Inutile sottolineare di quale potenziale tragedia stiamo parlando. E non sarà allarmismo dire che quella sarebbe una scorciatoia verso una terza guerra mondiale di cui sarebbero Europa e Russia a subire le conseguenze. È piuttosto evidente, però, quel che sosteniamo da tempo. Il “dopo Putin” non potrebbe che essere figlio di ciò che per vent’anni è stato Putin. E ci viene difficile immaginare l’avvento di un leader simpatico e buono, pacifista e disponibile ad abbracciare i valori dell’Occidente, una sorta di secondo Gorbaciov. È più facile che che arrivi qualcuno più a destra di Putin (per usare le nostre categorie), ancor più nazionalista, disposto ad andare fino in fondo. Non un personaggio folkloristico come il leader ceceno Ramzan Kadyrov, che un giorno sì e l’altro pure promette di prendere Kiev, ma qualcuno scelto dai siloviki (gli apparati militari e di sicurezza che sono decisivi negli equilibri di potere) e a loro gradito. Oggi molti attivisti, giornalisti e commentatori russi si sono esposti per chiedere che lo spettacolo di fuochi artificiali per il Giorno di Mosca fosse sospeso, per rispetto ai soldati russi in Ucraina. Ma non lo facevano con il sorriso in volto e il ramoscello d’ulivo in mano, bensì cercando di spingere Putin a prendere finalmente la decisione per loro più “giusta”: guerra.

Fulvio Scaglione 

 

 

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