di Fyodor Lukyanov – Il “sì” di Joe Biden alla domanda di un intervistatore sul fatto che Vladimir Putin sia un assassino suona oltraggioso anche sullo sfondo dei pessimi rapporti tra Washington e Mosca, che sono in caduta libera da molto tempo. Quella risposta è stata accolta con un’ampia gamma di reazioni in Russia. Alcuni dicono che il presidente americano non è del tutto in grado di capire le domande che gli vengono poste, mentre altri suggeriscono che sia stato Biden a dichiarare guerra a Putin.
La prima teoria non sembra credibile. Biden parla con sicurezza e coerenza, ricordando i suoi precedenti incontri con Putin avvenuti in Russia molto tempo fa. La sua risposta alla domanda sul fatto che Putin sia un assassino è in qualche modo dimostrativa, in realtà. È ovviamente nel pieno possesso delle sue facoltà. Quanto alla seconda teoria, potremmo avanzare una congettura e dire che con la sua dichiarazione Biden ha dato un segnale ai nemici del Cremlino, dicendo loro che il Presidente russo è ufficialmente un reietto e può essere trattato come tale. Ma questo significherebbe che la Russia è una questione importante nell’agenda del Presidente degli Stati Uniti. Mentre, a giudicare dall’intervista e dal clima politico nel suo insieme, non sembra essere così.
Biden stava parlando delle questioni interne dell’America. Il nome di Putin e la Russia sono emersi nel contesto del rapporto dell’intelligence recentemente pubblicato, che descrive in dettaglio le interferenze elettorali straniere nel 2020. In termini di gravità delle accuse, questo documento non si avvicina nemmeno lontanamente a ciò che le agenzie di intelligence Usa dicevano dopo le elezioni del 2016. Il messaggio principale dell’attuale rapporto è che i russi hanno cercato di seminare discordia nei cuori e nelle menti del popolo americano, e gli alleati di Trump hanno promosso questo processo – consapevolmente o inconsapevolmente.
Un altro rapporto dell’intelligence, pubblicato il giorno dell’intervista, espone ulteriormente questa idea, affermando che le dichiarazioni elettorali fatte da Trump e dai suoi sostenitori hanno incitato all’estremismo negli Stati Uniti. Stanno costruendo una connessione tra i nemici esterni e una “quinta colonna” interna che gioca a favore dell’avversario esterno. Una mossa classica.
Ci sono due possibili conclusioni che si potrebbero trarre sulla base delle dichiarazioni di Biden. Innanzitutto, è ovvio che la politica interna continua a essere la massima priorità nell’agenda della nuova amministrazione, proprio come lo era durante la presidenza Trump. Chi sperava che una vittoria democratica mettesse fine a tutti i conflitti interni che dilaniavano gli Usa, aveva sperato invano. I democratici sono ansiosi di consolidare il loro successo, ed è qui che torna utile il buon vecchio strumento della “interferenza russa”. È ancora uno strumento, non l’obiettivo.
Naturalmente, è anche vero che la retorica dell’amministrazione Biden sull’America che “rivendica” la leadership globale è, in larga misura, uno show. Mira a rendere chiaro il distacco dal “trumpismo”, ma in realtà gli Stati Uniti continueranno a ridurre la portata dei propri obblighi sulla scena internazionale. A poco a poco, al contrario di come Trump l’ha gestita, ma in modo molto più deciso rispetto alla presidenza di Barack Obama. In altre parole, è solo una cortina fumogena che nasconde ciò che sta realmente accadendo.
In secondo luogo, e probabilmente più importante, le parole di Biden sono indicative di una tendenza nella politica globale, tendenza che sembra in crescita. In senso figurato, è qualcosa che si potrebbe chiamare “sindrome della lingua sciolta”, il che, in definitiva, significa un divario crescente tra le parole e le azioni.
Fin a qualche tempo fa, chiamare “killer” il leader di un altro Paese, soprattutto una superpotenza, avrebbe voluto dire essere pronti a tagliare i rapporti e ad affrontare le conseguenze, alcune delle quali potevano essere davvero drastiche. Ovviamente non funziona più così. Nella stessa intervista, dopo aver attaccato Putin, Biden ha detto senza batter ciglio che si può “camminare e masticare gomma allo stesso tempo”. In altre parole, Washington prevede di interagire con Mosca ogni volta e nella misura in cui gli conviene.
Questo senso esagerato di importanza personale è radicato nell’assoluta fiducia della leadership statunitense di non dover affrontare alcuna conseguenza reale per il proprio comportamento. Nei trent’anni dalla fine della Guerra Fredda, l’America si è abituata a essere un egemone onnipotente e continua a considerarsi tale, nonostante gli ovvi problemi che deve affrontare. L’establishment politico di Washington ritiene che le relazioni con gli Stati Uniti siano preziose in sé e per sé e che qualsiasi Paese – comprese Cina e Russia, che sono apertamente riconosciute come rivali strategiche – sia disposto a mostrare umiltà al fine di preservare queste relazioni (o almeno di evitare che si trasformino in una aperta ostilità). In altre parole, le relazioni con gli Stati Uniti sono percepite come più importanti per i partner esterni che per gli Stati Uniti stessi. Questo tipo di atteggiamento è stato articolato in modo abbastanza esplicito un quarto di secolo fa da Madeleine Albright, che ha descritto gli Stati Uniti come “la nazione indispensabile”.
C’è un altro motivo, però. L’assenza di una minaccia militare tangibile o, più precisamente, l’assoluta fede nel concetto di “deterrenza” conferisce ai politici americani (per citare il romanziere russo Nikolay Gogol) un “meraviglioso flusso di idee” e trasforma le relazioni internazionali in una sorta di videogioco online. Le norme e i costumi della diplomazia iniziano a somigliare allo stile di comunicazione che si incontra sui social media: per gentile concessione di Donald Trump, i social media sono diventati non solo lo strumento principale per promuovere le idee politiche, ma anche la loro fonte e il campo di battaglia politico chiave. Ciò ha alcuni vantaggi: simile alle “tempeste” dei social media, il fervore politico degli alti funzionari del Governo spesso rimane limitato alla dimensione verbale, dove sussulta per un po ‘e poi svanisce. Tuttavia, anche in un ambiente politico “gamificato”, nessuno può garantire che tutte le azioni, politiche o meno, ne saranno contenute. C’è sempre la possibilità che tu debba assumerti la responsabilità delle tue parole – e meno saggiamente scegli quelle parole, più rischioso sarà una volta che la questione scoppia nel mondo “offline”.
La dichiarazione di Biden non può essere lasciata senza una risposta diretta, se non alto per non far aumentare il senso di “totale impunità” di Washington. Richiamare l’ambasciatore russo a Mosca per consultazioni è stato un passo naturale, ma non è sufficiente. Un approccio più ragionevole sarebbe congelare le relazioni Russia-Stati Uniti ad eccezione di alcuni aspetti essenziali “a livello tecnico”. Ancora più importante, bisogna dimostrare che gli Stati Uniti hanno torto nella convinzione di poter agire in modo sconsiderato in tutti gli aspetti della diplomazia, tranne che nelle aree importanti per gli interessi nazionali americani. No, signor Biden, non può camminare e masticare gomma allo stesso tempo.
Tradizionalmente, l’approccio della Russia è stato l’opposto. Mosca non smette mai di sottolineare che è disposta a essere costruttiva nella misura in cui gli Stati Uniti sono pronti a fare lo stesso. Ha senso presumere che l’attuale stato di cose sia il risultato di questo approccio, il che significa che è ora di rinunciarvi. A questa idea di solito si risponde sollevando i problemi comuni, sostenendo che è nell’interesse di entrambi i Paesi risolverli e che un certo dialogo è meglio di nessun dialogo. Si potrebbero anche ricordare “le pagine più oscure della guerra fredda” come esempio del fatto che i nostri Paesi sono riusciti a trovare un terreno comune su questioni critiche come la sicurezza e così via.
Se vogliamo ricorrere a tale logica, è bene ricordare che quelle “pagine più oscure” erano contrassegnate da un confronto altamente strutturato e da un’attenzione particolare alle parole e alle azioni. Le due potenze si prendevano sul serio e consideravano le prospettive a lungo termine, il che significa che nessuna delle parti avrebbe nemmeno ipotizzato la possibilità di un indebolimento fatale o addirittura di un crollo del suo rivale. Oggi non vediamo nulla di questo atteggiamento “serio” o “a lungo termine”. E guardiamo i pilastri della stabilità strategica (che era il fondamento della stabilità in generale) subire una continua erosione davanti ai nostri occhi. Il dialogo che si è espanso (o si è ridotto) negli ultimi anni non stava producendo alcun nuovo programma, ma stava distruggendo quello esistente.
Il sistema delle relazioni internazionali sta subendo un cambiamento fondamentale, il cui risultato rimane sconosciuto. Bisogna usare cautela – la virtù principale della politica internazionale, specialmente quando i problemi interni di una nazione superano qualunque questione esterna. In questa situazione, sembrerebbe naturale voler ridurre le interazioni esterne all’essenziale, o a quelle che garantiscano furti positivi. È difficile, tuttavia, vedere alcun valore in relazioni che si basano sul conflitto, che producono risultati scarsi o nulli, o sono screditate da una delle parti, che pensa solo a insultare l’altra.
Pubblicato da Russia in Global Affairs
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