di Fulvio Scaglione E così, Amnesty International ritira la patente di “prigioniero di coscienza” ad Aleksey Navalny. La ragione? Le dichiarazioni apertamente razziste che il Nostro aveva sparso qua e là in passato. Il grido di dolore dei benpensanti ha percorso il pianeta ed Amnesty è stata accusata di ogni cosa, nei casi più moderati di essere in preda a confusione mentale.
Eppure non è difficile da capire. Amnesty è ora vittima di quel sistema di pensiero che le ha permesso di crescere, affermarsi, acquisire autorevolezza e diventare la specie di tribunale alternativo (e assai più ascoltato dei tribunali “veri”) che è. Il mondo che, avendo liquidato le ideologie e, di conseguenza, le differenze, giudica tutto secondo un sistema binario: il bene e il male. Il bene siamo noi (i nostri valori, le nostre abitudini, i nostri giudizi) e il male gli altri, quelli che non si conformano. Poiché il nostro è il mondo più ricco, sviluppato e tecnologicamente avanzato, riusciamo a convincere anche parte del restante mondo che sia e debba essere così.
Il punto vero della questione, però, è che tale visione, per funzionare, dev’essere assoluta. Nessuna sfumatura. Vietato dubitare. O bianco o nero. Perché se cominci a farti domande, cade tutto. È questa la regola che Amnesty ha violato riguardo a Navalny. A cominciare dall’importanza di cui si accredita Navalny. Si legge spesso che Navalny “fa tremare Putin” o che minaccia il suo sistema di potere. Sono pure sciocchezze. Navalny fa presa tra i giovani, questo è sicuro. Ma solo il 20% dei russi lo approva e il 18% non l’ha mai sentito nominare. Il nostro sito vezzo di scambiare i desideri per fatti. E di raccontarli come tali.
Ma si diceva: mai farsi domande. Sul blogger russo, invece, di domande bisognerebbe farsene molte. Non per condannare lui, o abbandonarlo al suo destino, ma al contrario per capire che cosa esattamente succede in un Paese importante come la Russia. Per esempio: com’è che i servizi segreti russi si ostinano ad avvelenare la gente con il Noviciok, che a quanto pare non ammazza nessuno, mentre sarebbe tanto semplice uccidere con il vecchio caro colpo di pistola, come la criminalità comune e i casi della Politkovskaja e di Nemtsov purtroppo insegnano? Perché la Germania non pubblica i dati sull’avvelenamento di Navalny, curato appunto a Berlino? Come ha fatto Dasha Navalny (20 anni) a ottenere una borsa di studio a Stanford? Come fa la moglie di Navalny, Juliya, ad andare a venire dalla Germania? Chi (e perché) versa le ingenti somme in criptovalute che sanano i conti della Fondazione anti-corruzione di Navalny? Navalny di recente ha ribadito che la Crimea è Russia: siamo d’accordo?
Domande lecite, che avranno di sicuro risposte altrettanto lecite e razionali. Domande, però, che pare vietato porsi. Cosa che invece ha fatto Amnesty (tipo: uno che vorrebbe deportare tutti i caucasici è degno del nostro appoggio?), che infatti viene ora condannata.
Il bello è che tutto questo non ha nulla a che vedere con la categoria del “prigioniero di coscienza”. Perché uno può essere un “prigioniero di coscienza” (una persona cioè repressa per il suo pensiero) anche avendo idee bislacche o detestabili. Mandela propagandava la lotta armata ma era indubbiamente un “prigioniero di coscienza” e infatti diventò un artefice di pace. Allo stesso modo, si può essere “prigionieri di coscienza” ammirevoli e poi, una volta fuori, diventare dei leader criticabili o detestabili. Chiedete ai Rohynga del Myanmar, minoranza discriminata e repressa se ce n’è una, che cosa pensano del premio Nobel per la Pace Aung Saan Suu Kyi… Lo stesso Navalny, se per ipotesi un giorno andasse al potere, potrebbe essere un leader assai più tirannico e crudele di Vladimir Putin. Chi può garantire il contrario?
Amnesty ha messo le mani in queste contraddizioni e ora si prende le critiche, che andrebbero invece a un sistema di pensiero che fa acqua da tutte le parti. A proposito: la prossima settimana la Ue decide le nuove sanzioni contro la Russia proprio per il “caso Navalny”. Sarebbe logico attendersi provvedimenti terribili contro l’Arabia Saudita per il “caso Kashoggi”. O no?
Fulvio Scaglione
(nella foto, la copertina di 7 del Corriere della Sera dedicata alla famiglia Navalny).
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