di Marco Bordoni
Vista dall’Italia, la guerra armeno-azera sembra un affare abbastanza semplice. C’è il perfido sultano, nostalgico della gloria che fu, che stende i suoi tentacoli da Tripoli al Golfo Persico. Ci sono le orde infedeli che assaltano la ridotta cristiana fino a sommergerla. Il corollario è chiaro: come può Putin, paladino cristiano della terza Roma, assistere impassibile? Come può tollerare l’ insolenza del Turco?
A prima vista questa tesi ha qualche aggancio nella realtà: il livello di cooperazione politico-militare fra Russia ed Armenia è superiore a quello esistente fra Russia e Azerbaidjan. Erevan fa parte di tutte le organizzazioni sovranazionali create da Mosca per ricompattare lo spazio post sovietico, fra cui il Patto (militare) di Taskent, nel cui contesto ospita una base russa; Baku solo della (lasca) Comunità di Stati Indipendenti. A livello di simpatia popolare gli Armeni sono probabilmente più apprezzati (o meglio, meno invisi) degli Azeri agli occhi dell’uomo della strada russo.
Tuttavia, a ben guardare, le cose non sono così semplici. In primo luogo l’Azerbaidjan è, per la Russia, un vicino importante, con cui è bene tenere buone relazioni in un settore difficile. Economicamente e demograficamente l’Azerbaidjan è tre volte l’Armenia. I miliardari azeri sono di casa in Russia, dove controllano parecchie attività, specie nel settore della grande distribuzione. Più di metà delle armi acquistate negli ultimi cinque anni da Baku è di produzione russa.
Infine: la cooperazione azera è utile per tenere sotto controllo l’eversione islamica in Daghestan. Gli Azeri sono, è vero, concorrenti nel mercato energetico (primo cliente dell’export petrolifero azero è proprio l’Italia), ma allo stesso tempo anche clienti (primo fornitore dell’import: la Russia). Mentre fornisce petrolio all’Occidente, Baku compra gas da Mosca, in un complesso groviglio di interessi che lega i due produttori, Gazprom e SOCAR, nella triangolazione con la Turchia, Paese di transito per entrambi.
Veniamo ai rapporti russo armeni. Negli ultimi anni l’Armenia ha dato segni di sbandamento nella propria fedeltà: Pashinyan, portato al governo da una rivoluzione colorata nel maggio del 2018, non convince il Cremlino fino in fondo. A Erevan ha sede una delle ambasciate USA più grandi del mondo (la seconda, ben nove ettari di superficie), ed è nota la funzione di pressione politica delle rappresentanze diplomatiche a stelle e strisce. In effetti il locale personale diplomatico è zeppo di soggetti in odore di CIA, che a loro volta coltivano una fitta rete di ONG sostenute dal Dipartimento di Stato e di media anti-russi.
L’ impressione è che Pashinyan possa essere uno di quei politici di transizione che formalmente valorizza l’alleanza, ma intanto crea le premesse sociali e politiche per un allontanamento. Lo scorso 6 agosto, ad esempio, con una scelta di tempi decisamente infelice, il premier armeno ha firmato una legge che rende praticamente impossibile la trasmissione delle emittenti in russo, molto popolari nel Paese. Il meglio che si possa dire, tirando le somme, è che la minaccia azera incombente è utile a Mosca per conservare la fedeltà armena.
Il tutto va inserito nel contesto della situazione sul terreno: l’Azerbaijan, che ha torto quando sostiene di aver agito per “difendersi” da un’improbabile “offensiva armena”, ha ragione quando sostiene che l’Armenia ha utilizzato le trattative del Gruppo di Minsk per fare melina consolidando, nel mentre, lo status quo. Se il principio di legittimità internazionale è (per convinzione o per convenienza, poco importa) la bussola della diplomazia russa, non si può ignorare un dato di fatto: l’esercito armeno occupa da 30 anni un quinto del territorio azero (ben oltre i confini del Nagorno Karabakh) e Erevan non ha mai fatto seri sforzi per cercare un compromesso.
Per la Russia, quindi, non è tanto importante che l’Armenia vinca la guerra (anche se sarebbe questo, ovviamente, lo scenario preferibile). Anche nell’ipotesi peggiore (che non è detto si realizzi), ovvero se l’Armenia perdesse il controllo dell’Artsakh, e una parte dei 150.000 abitanti della regione dovesse essere rimpatriata (con gli ovvi problemi di protezione umanitaria che ne seguirebbero), per il Cremlino non sarebbe certo un dramma.
In ogni caso resterà sul piatto il problema turco, che tuttavia ha una luce netta se visto dall’Italia, molto meno se esaminato da Mosca. Curiosamente, il fatto che la nostra politica estera marci al passo del sultano in Libia ed in Siria, non ci impedisce di arrabbiarci con Putin se non vuole rompersi le corna contro il muro turco, cercando mediazioni rudi ma efficaci nei tanti scacchieri che ormai lo oppongono alla Turchia, che tuttavia resta un attore di taglia insufficiente a impensierire sul lungo periodo.
Quel che conta per il Cremlino è che l’armistizio finale venga firmato a Mosca, come nel 1994 e nel 2016, e che la Russia, nonostante i tentativi turchi e iraniani di infiltrarsi nella regione, si confermi mediatore fra i due contendenti. In fin dei conti, un’Armenia sconfitta sarebbe un alleato ancora più fedele (Erevan sta toccando con mano che l’unico suo santo in paradiso è la Russia), mentre relazioni distese con l’Azerbaidjan potrebbero facilitare la complessa posizione russa nel Caucaso.
Questo, ovviamente, non significa che la Russia non farà nulla per sostenere gli Armeni (anche sul piano del sostegno tecnico militare, che però resterà probabilmente indiretto). Ma certo i Russi non moriranno per Stepanakert. La vera sconfitta, per Mosca, sarebbe legarsi troppo ad uno dei due contendenti, lasciando l’altro, oltre tutto il più forte, ricco e popoloso, all’influenza di Istanbul e, in prospettiva, di Teheran, storica dominatrice della regione.
Marco Bordoni
autore del canale Telegram “La mia Russia”
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