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RUSSIA E UCRAINA, LE CRISI PARALLELE (2)

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La nomina di Mikhail Mishustin a primo ministro è un esempio perfetto. Ingegnere informatico, Mishustin ha cominciato la propria carriera a Mosca, nei primi anni Novanta, nel Club Internazionale del Computer, organizzazione che cercava di mettere in contatto le aziende tecnologiche occidentali con gli esperti e i funzionari statali russi. Mishustin coltivava rapporti con i manager di colossi come Intel, Hewlett-Packard, IBM, Motorola, Apple, e nel 1997 ebbe anche occasione di incontrare Bill Gates durante un forum organizzato a Mosca dal Club di cui era intanto diventato vice-presidente. Poi, come si sa, l’ingresso nell’apparato fiscale e la scalata fino al vertice, posizione consolidata con i risultati: Mishustin ha informatizzato il sistema e l’ha trasformato, da quel baraccone corrotto che era, in una struttura moderna e funzionante. Tra il 2014 e il 2018 la riscossione dell’Iva è cresciuta del 64%.

Ovviamente anche di Mishustin si è cominciato a dire che ha una villa qua, un conto corrente là. Più importante notare, invece, che il primo ad applaudire la sua nomina è stato Aleksej Kudrin che nel 2010, l’anno in cui il neo-premier arrivava al vertice del servizio fiscale, era il ministro delle Finanze. Kudrin è stato uno dei ministri più longevi della Russia post-sovietica, avendo retto le Finanze dal 2000 alla fine del 2011, e ha fama di liberale. Dal 2018 è presidente della Corte dei Conti della Federazione russa, il guardiano delle spese dello Stato. In questa veste non ha smesso un istante di criticare la linea politica dominante. Se l’è presa con il rapporto con l’Occidente, da pacificare per permettere all’economia russa un maggior respiro. Ha martellato la riforma delle pensioni, con il relativo aumento dell’età pensionabile. E durante il forum economico di San Pietroburgo, che da sempre è anche una vetrina del potere personale di Putin, ha chiesto la riforma radicale del sistema giudiziario, da lui giudicato una zavorra per l’economia russa visto che non offre serie garanzie agli investitori stranieri.

Un ruolo di grillo parlante che forse può permettersi per aver fatto parte, ancora giovanissimo, nella San Pietroburgo degli anni Novanta, dello stesso circolo di collaboratori del sindaco Anatolyj Sobciak di cui faceva parte anche Putin. In ogni caso, Kudrin ha detto di Mishustin: “Saprà bilanciare gli interessi del business con quelli dello Stato”. Affermazione che può essere letta in un solo modo: più business e meno Stato.

E non c’è solo questo. Il ricambio è avvenuto a livello nazionale ma anche a livello locale. Come sottolineato in un bello studio di Kadri Liik (The last of the offended: Russia first post-Putin diplomats), negli ultimi tempi 44 delle 85 entità federali hanno insediato governatori trentenni o quarantenni, e metà dei funzionari pubblici ha meno di quarant’anni. Per non parlare, come appunto fa la Liik, di una nuova leva di diplomatici che avanza. Ancora lenti nell’occupare posizioni importanti, forse, ma più liberi rispetto alla prigione intellettuale del perenne confronto Est-Ovest in cui sono cresciuti i loro capi. Anche qui: uomini nuovi, con scarse memorie dei tempi sovietici. Un altro segno che l’esigenza di rinnovamento, anche se di un rinnovamento controllato dall’alto e tenuto a briglia corta, è più che avvertita al vertice.

Nel perenne gioco di specchi che la lega alla Russia, anche l’Ucraina ha vissuto quasi nelle stesse settimane uno psicodramma politico dalle profonde implicazioni. Il 4 marzo del 2020 il Governo guidato dal giovanissimo (35 anni) economista Oleksiy Honcharuk si è dimesso dopo essere stato criticato in modo quasi brutale dal presidente Volodimir Zelen’skyj. Honcharuk, primo ministro per soli sei mesi (record negativo nella storia dell’Ucraina), è stato sostituito da Denis Shmygal, nominato pochi giorni prima vice premier e ministro dello Sviluppo regionale proprio per preparare la successione.

Possiamo giocare sul filo del paradosso. Il problema di Putin è innovare nella continuità, senza perdere il potere (rischio minimo) e soprattutto senza perdere il controllo del processo (rischio più consistente). Zelen’skyj ha il problema opposto: restaurare senza perdere lo slancio che il 21 aprile del 2019 lo ha portato alla presidenza, seppellendo Petro Poroshenko con il 73% dei voti. Il verbo “restaurare” va ovviamente preso con le pinze. Zelen’skyj è arrivato a dominare la scena (il suo partito, Servo del popolo, ha anche la maggioranza relativa in Parlamento) annunciando riforme e lotta dura alla corruzione. Ma non poco peso ha avuto anche la promessa, gestita con astuzia in chiave di interesse nazionale e mai del tutto esplicitata nei tempi e nei modi, di far uscire il Paese dal vicolo cieco in cui l’aveva cacciato, anche per necessità, la politica vetero-atlantista di Poroshenko. Il quale in buona sostanza diceva all’Occidente: aiutateci e l’Ucraina sarà il primo baluardo contro la Russia, nostro comune nemico. Un patto che portava con sé, compreso nel prezzo, l’ostentato desiderio di aderire alla Nato.

Una miscela di Dio (si veda la nascita della Chiesa ortodossa autoctona, tanto cara a Poroshenko), patria ed esercito, quella di Poroshenko, che poteva piacere all’Alleanza Atlantica ma che aveva come unico orizzonte certo il conflitto permanente con la Russia. Dopo 14 mila morti, un milione e mezzo di sfollati, tre milioni e mezzo di persone bisognose di assistenza umanitaria e una parte vasta della popolazione in povertà o quasi (secondo alcune stime, addirittura il 60%), non c’è da stupirsi che gli ucraini abbiano deciso di voltare pagina.

Durante la campagna elettorale per le presidenziali Zelen’skyj aveva fatto chiaramente capire di voler trattare con la Russia. Ripetendo, certo, il mantra sulla Crimea da restituire e sul Donbass da liberare, ma mettendo la prospettiva di un accordo, e non di una vittoria militare, alla base del programma. L’ex attore diventato presidente è stato coerente. La sua disponibilità ha stanato il Cremlino, costringendolo a reciprocare. Ci sono stati scambi di prigionieri. Nel dicembre del 2019, a Parigi, sotto l’egida di Emmanuel Macron e Angela Merkel, Zelen’skyj ha finalmente incontrato Vladimir Putin e dal colloquio è scaturita una tregua durata molti mesi, cosa mai vista prima.

Piccoli passi avanti, certo. Sembra ancora lontana un’intesa sullo svolgimento delle elezioni nell’Ucraina dell’Est, un capitolo fondamentale degli accordi detti di Minsk 2. Ma non sarebbe giusto né utile sottovalutare il lento riavvicinamento tra le parti. Anche perché la disponibilità al dialogo di Zelen’skyj è accompagnata da alcune significative mosse di Putin. Nel febbraio del 2020, per esempio, ha nominato Dmitryj Kozak, suo vecchio sodale dei tempi di San Pietroburgo, nonché ex vice primo ministro e attuale vice capo dell’amministrazione presidenziale, quale inviato speciale del Cremlino nei colloqui con Kiev e con le repubbliche separatiste filorusse del Donbass. Ha preso il posto di Vladislav Surkov, che dal 2013 faceva da supervisore ai rapporti con l’Ucraina e altre ex repubbliche sovietiche ed era considerato assai più duro e intransigente. Uno dei tanti rimpasti succeduti alle dimissioni del governo Medvedev’, come altri passato quasi inosservato dalle nostre parti. Una delle tante mosse che facevano prefigurare un diverso atteggiamento verso le questioni aperte con l’Occidente.

Zelen’skyj sa bene quanto sia centrale la “questione russa” per la stabilità politica e sociale della sua Ucraina. Per non parlare dell’aspetto economico: ancora nel 2019, secondo i dati forniti dal Servizio statistico di Stato, gli investimenti diretti russi in Ucraina ammontavano a 220 milioni di dollari, preceduti solo da quelli olandesi (438 milioni) e da quelli provenienti da Cipro (761 milioni), che come tutti sanno è una delle piazze preferite dagli oligarchi russi.  Zelen’skyj sa anche che, per procedere sulla strada che ha scelto, deve tenere calme due constituency molto importanti dell’elettorato. Quella ultra-nazionalista, anti-russa, intransigente e combattiva, che ha accettato la sua irruzione sulla scena politica ma non è disposta a fare sconti. E quella che ha sostenuto con più convinzione la sua cavalcata verso la presidenza, quella che chiede pane e riforme, lotta alla corruzione e benessere.

Così ha scelto, paradossalmente ma non troppo, di fare una politica nuova con uomini vecchi. A partire del neo-premier Shmygal, 44 anni, già governatore della regione di Ivano-Frankovsk, una delle più occidentali del Paese, il cui omonimo capoluogo è gemellato con ventiquattro città dell’Unione Europea. Shmygal, però, è più noto per essere stato, tra il 2017 e il 2019, amministratore delegato di DTEK, il più grande gruppo ucraino nel campo dell’energia, una holding che tratta carbone, gas naturale, energia elettrica, petrolio ed energie rinnovabili e appartiene, guarda caso, all’oligarca Rinat Akhmetov, l’uomo più ricco d’Ucraina. Akhmetov era un alleato di Petro Poroshenko ma è stato rapido a passare sull’altro lato della barricata. Essendo anche un tycoon dei media, ha conferito a Zelen’skyj l’appoggio delle sue televisioni, che ora parlano in termini entusiastici del giovane Presidente.

Il Governo Shmygal abbonda di “uomini nuovi” già visti prima. Il ministro degli Esteri, Dmytro Kuleba, che pure ostenta toni più morbidi del predecessore Pristaiko, era un giovane politico in ascesa fin dai tempi di Poroshenko. Il ministro della Difesa, Andrij Taran, era un generale dell’esercito prima del pensionamento, non si sa quanto spontaneo, avvenuto nel 2016. Il ministro per i Territori Occupati è Oleksij Reznikov, nel 2015 membro della delegazione che negoziò gli accordi di Minsk 2. Il ministro delle Finanze è Igor Umansky, già ai piani alti del ministero con Poroshenko. Agli Interni è rimasto Arsen Avakov, che occupava la stessa posizione ai tempi di Poroshenko, uomo di potere che non ha mai trattenuto gli elogi per il famigerato Battaglione Azov, dal 2018 sulla lista nera del Congresso americano per le simpatie neonaziste che i suoi miliziani ostentano. Discorso che vale non solo per il Governo ma anche per le principali agenzie statali. A capo dell’Agenzia Nazionale delle Imposte, tasto da sempre dolente della governance ucraina, è stato insediato Oleksiy Lyubchenko, che del servizio fiscale era stato vice-capo addirittura nel 2009-2011, quand’era presidente Viktor Yanukovich.

Allo stesso tempo, e in perfetta simmetria, Zelen’skyj ha rimesso in quadro i rapporti con gli oligarchi. Oleksandr Turcynov, per sei mesi presidente ad interim nel 2014, cioè nel pieno della rivolta di Euromaidan, li aveva chiamati a raccolta per rispondere alla crisi della Crimea e della guerra nel Donbass. L’attuale Presidente ha sfruttato abilmente l’allarme da coronavirus per richiamare in servizio i super-ricchi senza i quali si può forse governare, ma contro i quali è impossibile sopravvivere politicamente. Li ha incaricati di fare da osservatori speciali nelle regioni in cui si trovano le loro aziende e i loro beni. Rinat Akhmetov è stato nominato “osservatore speciale” per l’emergenza sanitaria nel Donbass e l’Ucraina orientale, Ihor Kolomoisky (terzo uomo più ricco d’Ucraina) per il Zaporozhie, Viktor Pinchuk (il secondo più ricco) per la regione di Dnipropetrovsk.

Anche in questo caso, però, con le dovute correzioni. Dopo molto penare è finalmente giunta all’approvazione del Parlamento la legge sulle banche, che aveva un fondamentale obiettivo: bloccare la corsa di Ihor Kolomoisky verso la riconquista di PrivatBank, l’istituto di credito che aveva fondato nel 1992, che in breve tempo era diventato il più grande e influente d’Ucraina e che nel 2016 era stato nazionalizzato a causa di una serie di truffe costate a risparmiatori e correntisti quasi 6 miliardi di dollari. Kolomoisky è stato lo scopritore di Zelen’skyj e lo sponsor decisivo della sua scalata al potere, e resta un pezzo importante sulla scacchiera politica ucraina. Il suo sacrificio, però, era diventato necessario per almeno due ragioni. La prima era mandare un messaggio agli irriducibili: con la Russia bisogna parlare, perchè recuperare la Crimea e ricondurre alla ragione (ucraina) il Donbass sono obiettivi di lungo periodo, che non saranno raggiunti domani e nemmeno dopodomani. Il ridimensionamento di Kolomoisky, fondatore di una milizia nazionalista, noto finanziatore del Battaglione Azov e di altre formazioni armate, già governatore della regione di Dnipropetrovsk, in questo senso è un messaggio perfetto.

La seconda ragione attiene invece ai rapporti internazionali e alla situazione economica dell’Ucraina. Secondo le previsioni del ministero dell’Economia, la crisi sanitaria porterà con sé, nel 2020, una contrazione del 3,9%. E chissà che cosa avverrà nel 2021. Il Governo, dunque, aveva un disperato bisogno che il Fondo Monetario Internazionale sbloccasse la tranche da 5,5 miliardi di dollari del prestito concesso all’Ucraina, condizionato appunto all’approvazione della legge sulle banche. Sciolto quel nodo, si spalanca la porta all’arrivo dei 4 miliardi che il Rapid Coronavirus Financing (sempre FMI) ha previsto per l’Ucraina, oltre a una serie di altri prestiti e finanziamenti internazionali. Non a caso la Germania di Angela Merkel ha stanziato 150 milioni di euro (in prestito) per aiutare l’Ucraina a combattere il virus, accanto ai 40 offerti dalla Banca Europea di Investimento e agli 80 previsti dalla Commissione Europea. In più, 1 miliardo di dollari dalla Banca Mondiale, 500 milioni di euro dal Fondo di stabilizzazione dell’Unione Europea, accordi bilaterali sulla strada della firma con Canada e Giappone, altri 150 milioni per interventi sociali legati all’emergenza sanitaria dalla solita Banca Europea di Investimento.

“Se riusciamo a ottenere questi soldi (i 5,5 miliardi del FMI, N.d.A.) potremo superare senza problemi la crisi del coronavirus”, aveva detto il 1° aprile, durante una videoconferenza con imprenditori europei, Yakiv Smolii, un altro dei vecchi uomini nuovi di Zelen’skyj, diventato governatore della Banca centrale d’Ucraina il 15 di marzo con il cambio di Governo, dopo una lunga carriera nell’istituto. In caso contrario, sarebbe stato il disastro. Le esitazioni nell’approvazione della legge sulle banche e anti-Kolomoisky avevano fatto volare alle stelle lo spread degli Eurobonds emessi dall’Ucraina nel 2019, di fatto tagliando fuori il Paese dal circuito dei prestiti di mercato. E con 4,1 miliardi di dollari di prestiti internazionali da restituire entro il 2020, l’avvenire si faceva cupo.

Insomma, anche la grande finanza chiede all’Ucraina più stabilità e meno avventure. Messaggio che Zelen’skyj ha subito percepito visto che, ribaltando quanto aveva affermato durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2019, si è già detto disponibile ad affrontare un secondo mandato.

Fulvio Scaglione

Pubblicato in Limes XC/XC/XC

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