di Maurizio Vezzosi L’11 e 12 febbraio si è svolta a Minsk l’Assemblea generale bielorussa, evento che si tiene ogni cinque anni e si prefigge di fare un bilancio del piano quinquennale concluso e di approvare quello da inaugurare. Quest’anno ha visto la partecipazione di 2.700 rappresentanti istituzionali di tutti i livelli e di tutti i settori sociali. “Unità, sviluppo, indipendenza” sono state le parole d’ordine dell’Assemblea, presieduta da un Aleksandr Lukashenko ormai al potere da ben 26 anni, e stampati in grandi insegne all’interno e all’esterno del Palazzo della Repubblica, nella centrale Piazza d’Ottobre della capitale.
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di Dan Peleschuk Da quando è entrato in carica nel 2019, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky è stato spesso accusato di essere una marionetta schiava degli interessi degli oligarchi, un populista che non vuole o non può sa contrastare l’influenza russa che lacera il suo Paese. Quindi il suo recente giro di vite sui media filo-russi è stato una sorpresa per tutti. Il 2 febbraio, con pochi tratti di penna, Zelenskyj ha firmato i decreti che hanno bloccato tre televisioni filo-russe in Ucraina. La mossa era stata proposta dal Consiglio ucraino per la sicurezza e la difesa nazionale. Zelensky ha proseguito l’epurazione mediatica con un tweet in cui diceva che “l’informazione oggi è un’arma potente come i carri armati o i missili”.
di Fyodor Lukyanov Negli anni Novanta, quando la Russia contemporanea risorse dalle ceneri dell’Unione Sovietica, l’Occidente era quanto di meglio ci fosse, l’unico modello accettabile. I tempi però sono cambiati, la situazione oggi è radicalmente diversa. Un buon esempio è il modo in cui la Russia ha risposto alle critiche sul “caso Navalny”. In precedenza, di fronte a situazioni simili, come quella di Yukos (un gigante petrolifero crollato e acquisito in modo fraudolento dagli oligarchi negli anni Novanta), delle Pussy Riot o qualsiasi altra, Mosca cercava di giustificare le proprie azioni usando le stesse argomentazioni e gli stessi principi dei suoi critici occidentali, anche anche se a volte i funzionari russi erano troppo duri ed emotivi. Adesso è diverso. I commenti critici dell’Occidente vengono ignorati o ridicolizzati. La Russia è cambiata, e la spiegazione di questo va cercata nel mutamento dell’equilibrio globale.
di Aleksander Baunov Per molti anni si è pensato che se gli Stati Uniti si fossero allontanati dalla loro alleanza con l’Europa, ciò avrebbe portato l’Europa a riavvicinarsi alla Russia. Sembrava uno scenario puramente ipotetico. Poi Donald Trump è diventato presidente degli Stati Uniti e la teoria è stata messa alla prova. Il nazionalismo di Trump, il suo scetticismo sull’euro e la NATO, il suo sostegno alla Brexit e il ritiro unilaterale da accordi che invece erano apprezzati dai Paesi Ue – come quello di Parigi sul cambiamento climatico e quello sul nucleare iraniano – crearono rapidamente una frattura tra Europa e Stati Uniti. La pandemia e il comportamento di Trump durante le elezioni presidenziali del 2020 hanno solo peggiorato le cose. Per la prima volta in oltre mezzo secolo, l’Europa è stata costretta a prendere le distanze dalla leadership degli Stati Uniti.
di Giuseppe Gagliano Oggi la Russia commercia con l’India circa dieci volte meno di quanto fa con la Cina. La cooperazione tecnica militare tra Mosca e Nuova Delhi sperimenta molte complicazioni e persino battute d’arresto a causa della crescente presenza occidentale nel mercato della difesa indiano e della la strategia industriale “Make in India” dell’attuale Primo Ministro Modi. Esistono significative aree di disaccordo tra i due Paesi su molte questioni internazionali, tra cui il QUAD (il forum strategico tra Usa, Giappone, Australia e India, n.d.R.), l’Afghanistan, la Belt and Road Initiative proposta dalla Cina e altri ancora. Nel 2020, per la prima volta in vent’anni, Mosca e Nuova Delhi non hanno tenuto il loro regolare incontro annuale al vertice.
di Marco Bordoni Slovyansk, 24 maggio 2014. I fotografi Andrea Rocchelli, Andrej Mironov e il giornalista francese William Roguelon, che si trovano nella città di Slovyansk per raccontare la guerra civile ucraina, decidono spostarsi nella vicina Kramatorsk. Hanno avuto notizia di un bombardamento da parte delle forze governative e vogliono verificare di persona. Si fanno accompagnare da un tassista, Evgheny Koshman, su una vettura che espone l’insegna distintiva della locale cooperativa tassisti, “Viva 1”, e dopo dieci minuti giungono alla fabbrica Zeus e alla ferrovia. Di fronte a loro, un po’ verso sinistra, sta il colle Karachun, su cui è installata l’antenna televisiva.
L’ex presidente ucraino Petro Poroshenko e il neo-eletto presidente degli Usa Joe Biden sono indagati in Ucraina. Lo ha annunciato Igor Golovan, avvocato di Poroshenko. Il procedimento penale è legato alla presunta interferenza nelle attività dell’ex procuratore generale ucraino Viktor Shokin, ed è stato aperto due ore dopo l’insediamento del 46 ° presidente degli Stati Uniti. Il caso nasce da una denuncia di Andrey Derkach, un deputato indipendente della Verkhovna Rada che l’anno scorso aveva reso pubbliche le registrazioni audio di una conversazione, presumibilmente tra Poroshenko e Biden, risalente al 2016. Biden era allora il vicepresidente degli Stati Uniti. L’ipotesi era che Biden avesse offerto a Poroshenko un miliardo di dollari per le dimissioni del procuratore generale Viktor Shokin. Andriy Derkach sostiene di aver ricevuto il materiale da giornalisti, che la registrazione fu fatta personalmente da Poroshenko e che essa è la dimostrazione della corruzione internazionale e del tradimento dell’ex Presidente ucraino.
di Kadri Liik In una giornata soleggiata e calda di fine settembre, l’Internet russo ha diffuso ancora una volta foto di ambulanze in lunghe file davanti alle porte dell’ospedale, in attesa di lasciare i pazienti. Uno spettacolo che non si vedeva dalla fine di aprile. Il numero di infezioni da Covid-19 a Mosca è più che raddoppiato in pochi giorni. Questo ha costretto molti riluttanti ad ammettere che il dramma del Coronavirus non era ancora finito: il secondo atto stava per iniziare, come del resto ha fatto. Tuttavia, chiunque sperava che la minaccia comune del virus avrebbe contribuito a lanciare una nuova era di cooperazione internazionale, anche tra Russia e Occidente, è rimasto deluso. Così anche quelli che si aspettavano che il virus fosse la goccia finale per l’economia dipendente dal petrolio della Russia o per il sistema politico del presidente Vladimir Putin, che da tempo lotta per la legittimità e la popolarità.
di Marco Bordoni Domani (l’ha annunciato su Twitter) Navalny rientrerà in patria su un volo della compagnia low cost Pobeda. Possiamo tenerlo per certo: l’agitatore più amato dai Governi occidentali non può gettare la spugna dopo avere fissato la data del rientro e aver chiesto ai suoi sostenitori di venire ad accoglierlo all’aeroporto. Del resto (lo ha notato recentemente James Rodgers su Forbes), l’esilio dorato in Germania lo avrebbe, alla lunga, relegato all’irrilevanza ed all’oblio, una prospettiva inaccettabile per una personalità esuberante come quella di Alexej.