Che ne parlino coloro che detestano la Russia, non stupisce. Però diciamoci la verità: sono quelli che amano la Russia che dovrebbero più parlare e indignarsi per la chiusura del Centro Sakharov di Mosca, fondato nel 1996 dalla moglie Elena Bonner per onorare la memoria, e proseguire le attività, del marito Andrey Sakharov, il fisico che aveva partecipato alle sperimentazioni delle prime bombe atomiche sovietiche, poi era passato a contestare il nucleare per scopi bellici e infine, negli anni Settanta, aveva fondato il Comitato per i diritti civili che difendeva il diritto alla libertà di parola dei dissidenti e, più in generale, dei critici del regime sovietico. La chiusura del Centro avviene in base alle nuove disposizioni della legge sugli “agenti stranieri”, emendata nel dicembre scorso: è vietato a tali “agenti” ottenere in uso edifici di proprietà pubblica. Così il Comune di Mosca, proprietario dello stabile in Zemlyanoj Val che ospita il Centro e il Museo Sakharov, ha dato lo sfratto. Che ciò sia accaduto il 24 febbraio, anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina, è uno sfortunato ma lugubre caso.
Dovremmo indignarci di più, noi che amiamo la Russia, perché la chiusura del Centro è l’ennesimo segno di una deriva che non può portare del bene al popolo russo. Questa chiusura è indubbiamente il segno di un inasprimento ormai intollerabile della censura e del controllo dell’opinione pubblica. Checché se ne dica, anche solo pochi anni fa la Russia era di Putin ma non era questa. Oggi la legge sul “discredito delle forze armate” consente di infliggere multe altissime e pene detentive lunghissime anche per critiche blande. E poi c’è la legge sugli “agenti stranieri”, come detto emendata nel dicembre scorso: prima era studiata per creare difficoltà alle organizzazioni che ricevono fondi dall’estero, adesso mette nel mirino, per eliminarle, tutte le organizzazioni che sono “sotto influenza straniera di qualsiasi tipo”, definizione sufficientemente vaga per consentire qualunque interpretazione. L’inserimento nella lista nera del WWF, in un Paese che da qui al 2025 spenderà 22 miliardi di rubli per la bonifica del Lago Baikal e che ogni anno è piagato da migliaia di incendi boschivi, la dice lunga.
Questa, però, è la situazione contingente, in parte attribuibile (ma non scusabile) allo stato di guerra. Il punto vero, quello che farà i danni maggiori, è un altro. È il progetto culturale che s’intravvede a scandalizzare e a preoccupare. Di provvedimento in provvedimento, viene cancellata una componente importante della cultura, e diciamo pure della civiltà, russa. Ora tocca al Centro Sakharov, prima (gennaio 2021) erano stati liquidati Memorial e il Gruppo Helsinki di Mosca (gennaio 2023), fondato addirittura nel 1976, in piena era sovietica. In tutti e tre i casi risuona alto il nome di Sakharov, premio Nobel per la Pace nel 1976, così come Memorial aveva ottenuto lo stesso riconoscimento nel 2022.
Non è un caso se la figura del grande fisico nucleare si staglia dietro la nascita di queste organizzazioni. La figura dell’intelligent, dell’uomo di cultura, è sempre stata decisiva negli equilibri della società russa. Proprio perché segnalava i punti critici e annunciava i temi di cui si sarebbe dovuto discutere per il progresso della nazione (l’intelligent russo è spessissimo un patriota) e il bene del popolo. Il termine è diventato comune alla metà dell’Ottocento, dopo i Decabristi e il populismo russo, ma era in uso già nel Seicento. Tanto che un primo esempio di intelligent può essere considerato quello di Aleksandr Radishchev (1749-1802), che scrisse il “Viaggio da San Pietroburgo a Mosca” così critico nei confronti del sistema politico e sociale di Caterina la Grande da procurargli una condanna a morte poi commutata nell’esilio in Siberia.
Anche Sakharov fu esiliato, anche se solo a Gorkij (l’odierna Nizhnyj Novgorod). E anche lui, come Radishchev con Caterina, non potè cambiare l’Urss e nemmeno Brezhnev. Però sparse un seme che avrebbe dato frutto: pensiamo solo al lavoro compiuto da Memorial per onorare la memoria e la dignità di centinaia di migliaia di persone innocenti scomparse nelle purghe staliniane. Una parte importante della società russa.
Il Cremlino, ora, pretende di spazzare via tutto questo, una storia intera che ha contribuito a fare la Russia, in nome dell’emergenza bellica e di un nazionalismo sempre più cieco. La Russia, però, può fare a meno dei dollari e degli euro, degli iPhone e delle Ferrari, ma non dei suoi intellettuali. Non di chi custodisce la memoria o lavora sulle ipotesi di futuro. Forse non è un caso se in questo clima circa 170 mila giovani tecnici informatici, l’avanguardia delle odierne professioni, hanno lasciato il Paese. Per non parlare delle decine di attori, scrittori, giornalisti che hanno scelto di andare all’estero. Forse non è un caso se Viktor Sadovnichy, rettore dell’Università statale di Mosca, ha lanciato l’allarme sul calo dei ricercatori sotto i trent’anni di età. Erano 71 mila nel 2010 ma solo 53 mila nel 2021. Di queste assenze si sentirà il peso, possiamo scommetterci.
Fulvio Scaglione
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