di Marco Bordoni Slovyansk, 24 maggio 2014. I fotografi Andrea Rocchelli, Andrej Mironov e il giornalista francese William Roguelon, che si trovano nella città di Slovyansk per raccontare la guerra civile ucraina, decidono spostarsi nella vicina Kramatorsk. Hanno avuto notizia di un bombardamento da parte delle forze governative e vogliono verificare di persona. Si fanno accompagnare da un tassista, Evgheny Koshman, su una vettura che espone l’insegna distintiva della locale cooperativa tassisti, “Viva 1”, e dopo dieci minuti giungono alla fabbrica Zeus e alla ferrovia. Di fronte a loro, un po’ verso sinistra, sta il colle Karachun, su cui è installata l’antenna televisiva.
Karachun: il dio pagano del freddo e della notte, che simboleggia il solstizio invernale e la morte in giovane età. Un presagio sinistro. Il colle è una posizione strategica, che si eleva per un centinaio di metri sulla pianura circostante, occupata sin dai primi giorni del conflitto dagli Ucraini: esercito e guardia nazionale. I fotografi vogliono scattare qualche foto e quindi il gruppo decide di fermarsi. Sui binari c’è un treno distrutto: è stato portato lì dai miliziani di Slovyansk, attestati nella fabbrica, per coprire almeno in parte la propria posizione, dominata da quella nemica. L’atmosfera è inquietante: treno e fabbrica sono crivellati di colpi, ma il luogo è avvolto da una calma surreale.
Il gruppo dei giornalisti, in abiti civili, con le macchine fotografiche, si avvicina al passaggio a livello e scatta delle foto. All’improvviso il silenzio viene rotto dal grido “snaiper!”, “cecchino!”: è l’avvertimento lanciato da un ragazzo in abiti civili che si trova sulla strada e che si è accorto dell’inizio di un attacco. I tre tornano sui propri passi: camminano senza correre, distanziati (per fare capire che non sono militari), verso la macchina, rimasta davanti alla fabbrica. Non fanno in tempo. In quel momento che gli ucraini aprono il fuoco: è un tiro di dissuasione entro la portata della gittata dei mitra, ma non di precisione. Il colle è troppo distante perché i kalashnikov possano mirare, i soldati sparano a casaccio.
I colpi piovono attorno ai giornalisti e sulla facciata della fabbrica. Bisogna ripararsi alla meglio, e in fretta. Per fortuna davanti alla Zeus c’è un fossato, coperto da un boschetto. Rocchelli, Mironov e Roguelon vi si rifugiano. Il tassista li raggiunge, perché anche la sua posizione è esposta. Lì si è rifugiato anche un quinto uomo: il civile che li aveva avvertiti dell’inzio dell’ attacco.
Quei momenti di tensione, circa cinque minuti nel fossato, sono ritratti negli ultimi scatti di Rocchelli. In questi minuti i miliziani di Slovyansk abbozzano una reazione: si sentono raffiche dalla parte della fabbrica, gli uomini nascosti nel fossato sperano che la controffensiva alleggerirà la loro situazione. Che però non migliora, anzi. Gli ucraini aprono il fuoco con i mortai. E’ un attacco che non lascia scampo, un massacro lucido ed intenzionale. Cade un colpo ogni sei secondi: “Si sentivano fischiare da molto lontano, paralizzavano il corpo e le emozioni. Strappava il cielo per circa quattro secondi. E sembrava mi cadesse sulla testa”, è il racconto del francese.
Il gruppetto si rende conto che il fossato non offre più riparo, e cerca scampo nella fuga. Seguono momenti tragici: Roguelon è il primo a essere ferito, alle gambe, dalle schegge di un proiettile. Rocchelli e Mironov riescono a far qualche metro in più sul piazzale, ma vengono entrambi colpiti a morte, il secondo letteralmente fatto a pezzi. Rocchelli, agonizzante, riesce a muoversi per qualche metro, poi spira. Ripresosi, Roguelon si accorge di sanguinare copiosamente. Tuttavia, con la forza della disperazione, cerca di raggiungere il taxi, come era riuscito a fare, nel frattempo, il conducente. Ma in quel momento dal colle ricominciano a sparare con i kalashnikov. La vettura viene crivellata e tuttavia riesce ad allontanarsi. Solo Evgheny Koshman, però, il tassista, si salva: il ragazzo che aveva urlato “sniper!” (rimarrà senza nome), che nel frattempo aveva a sua volta raggiunto il taxi, muore dissanguato durante il tragitto, per i colpi ricevuti. Per Roguelon non c’è altra possibilità che tornare nel fosso: sono minuti di terrore. Scrive messaggi ai colleghi che si trovano a Slovyansk implorando aiuto. Alla fine il bombardamento cessa, e il giornalista riesce ad avvicinarsi alle posizioni dei miliziani, presso la fabbrica: questi, che già si apprestavano ad aprire il fuoco, lo riconoscono come giornalista e gli consentono di mettersi in salvo.
E’ questa la verità processuale che emerge dalla lettura della sentenza della Corte d’ Appello di Milano (sentenza 21 gennaio 2021 n. 31) che ha assolto Vitaly Markiv dall’accusa di aver partecipato all’ omicidio di Rocchelli e Mironov. “La ricostruzione dei fatti, così come emerge dalle prove processualmente utilizzabili e dalle considerazioni svolte nei paragrafi che precedono” (si legge a pagina 58 della pronuncia) “porta questa Corte a concordare con le conclusioni della Corte d’ Assise di Pavia, in merito alla tipologia e alla provenienza dei colpi che hanno ucciso Rocchelli e ferito Roguelon: e, cioè, dei colpi di mortaio o di artiglieria pesante sparati dalla collina del Karachun ad opera dei militari dell’ Armata Ucraina, in direzione del fossato ove erano nascosti i fotoreporter”. E ancora: “La volontà di difendere l’antenna televisiva da qualunque attacco e da qualunque possibile accesso e a qualunque costo sta alla base dell’ordine di sparare in presenza di persone che si avvicinavano nel raggio di 1,52 chilometri: il 24 maggio 2014 Rocchelli, Roguelon e Mironov (cui si erano aggiunti il civile e poi il tassista) che non stavano portando alcun attacco alla posizione del Karachun sull’antenna, che non erano armati, che camminavano distanziati, allo scoperto, lungo la strada antistante la fabbrica Zeus, che si fermavano a scattare fotografie, che erano arrivati con un’auto civile avente sul tetto l’insegna della locale compagnia di taxi, sono stati considerati delle “minacce” dai militari “osservatori” posizionati lungo il perimetro di cinturazione del Karachun: costoro hanno allertato i comandanti, i quali hanno dato l’ordine di sparare, comunicando altresì all’esercito le coordinate per l’uso dei mortai contro di loro”. “Si è trattato di un ordine illegittimamente dato dai comandanti”, conclude la Corte, “perché in violazione delle norme che mirano alla protezione dei civili, ed eseguito dai militari della Guardia Nazionale e dell’esercito appostati sulla collina”.
Andrea Rocchelli è stato ucciso. E’ stato ucciso dall’esercito ucraino, e la responsabilità della sua morte è di Bohdan Matkivskyi e Oleksandr Vendiuk, comandanti dei due plotoni schierati sul colle, coordinati da Andrej Antonyshack e Roman Gut, a loro volta agli ordini del comandante del corpo della Guardia Nazionale, Mykola Balan. Furono loro a ordinare il fuoco prima con i mitra, poi con i mortai, quando gli osservatori segnalarono la presenza dei giornalisti (perfettamente riconoscibili come tali) vicino alla ferrovia, ai piedi del colle, in quel terribile giorno. Questa è la verità processuale: la Cassazione non potrà cambiare i fatti accertati, ma solo la loro interpretazione.
E il soldato molto semplice Vitaly Markiv? L’immagine di Markiv restituita dal processo difficilmente può suscitare sentimenti positivi (eufemismo). Ma il giudizio cui l’ucraino è stato sottoposto non era il voto popolare di un talent show bensì un processo per omicidio volontario. Non contava la simpatia: contavano le prove. La sua condanna richiedeva l’accertamento al di là di ogni dubbio che proprio lui (non qualcun altro delle centinaia di militari schierati sul colle) avesse (almeno) preso parte all’azione decisiva e all’assassinio di Rocchelli.
Per capire che quel passaggio della motivazione del Tribunale di Pavia traballava, bastava leggere la sentenza. Scrivevo, a tal proposito, lo scorso ottobre: “La prova che, fra i circa 150 militari presenti sulla collina, sia stato proprio lui a sparare, e poi ancora lui a chiamare il fuoco delle artiglierie, no. Quella non l’ho trovata. È possibile, anzi probabile, che l’abbia fatto. Ma non è certo”. Del resto, siamo onesti: come si fa a essere certi, nel caos della guerra, di quale fantaccino abbia sparato, e a chi? La guerra è una faccenda maledettamente caotica.
Del resto i testimoni che avevano inchiodato Markiv alla posizione da cui avrebbe potuto fare fuoco sui giornalisti erano proprio (osserva la Corte d’ Appello) i suoi comandanti: gli alti papaveri primi responsabili del massacro. Questi, osservano i Giudici Milanesi, avrebbero dovuto essere sentiti non come testimoni, ma come persone imputate in procedimento connesso. Quindi la loro testimonianza non è utilizzabile. Giuridicamente, si tratta di una evidente forzatura perché, va detto, quelli che la Corte identifica come gli assassini gallonati del reporter non sono mai stati nemmeno imputati, figurarsi perseguiti. Solo se lo fossero stati avrebbero avuto diritto alle garanzie di cui parla la Corte.
Quindi si potrebbe anche dire che i Giudici hanno mandato assolto Markiv appigliandosi ad un cavillo. Certamente qualcuno dirà che la ragion di Stato ha avuto al meglio sulla giustizia. Mi pare però che le cose siano più complesse di così. In realtà la posizione ucraina esce dalla lettura della sentenza di appello ancora più compromessa (perché compromessa a un livello più alto della gerarchia) che da quella della pronuncia di primo grado. Se fossimo di fronte a una sentenza “politica” i Giudici avrebbero potuto aprire uno spiraglio al diluvio di integrazioni istruttorie farlocche chieste dalla difesa: prima fra tutte il famoso documentario The wrong place mirante a dimostrare che (fingiamoci sopresi) erano stati i russi. Ma i Giudici non hanno preso questa strada. Bisogna quindi pensare che la Corte d’ Appello si sia piuttosto inventata un espediente giuridico (di questo si tratta) per evidenziare il colossale paradosso che, purtroppo, affligge la sentenza pavese: quella di un pesce minuscolo che finisce in padella, mentre gli squali se la ridono sui banchi del parlamento di Kiev (con un fugace passaggio sul banco dei testimoni, a friggere il pesciolino). L’ assoluzione di Markiv nasce da questa cruda constatazione.
Prima che su tutta la vicenda scenda il disinteresse del pubblico e dei commentatori, e quindi il silenzio, possiamo trarre qualche conclusione. Vitaly Markiv esce di scena. Di tutta la vicenda che lo ha visto protagonista, probabilmente, non ha capito nulla. Non ha capito la gravità degli atti raccapriccianti scrupolosamente documentati nel proprio cellulare. Non ha capito che, a forza di smargiassate, stava annodando con le sue stesse mani il cappio processuale che l’ha poi strangolato. Arrestato, ha sbagliato completamente il contegno da tenere, dando a tutti l’impressione di rivendicare come un merito il crimine che gli veniva contestato e guadagnandosi sul campo una condanna più severa di quella chiesta dallo stesso Pubblico Ministero. I suoi superiori, che avevano ordinato l’attacco, sono venuti da Kiev prendendosi la briga di confermare che sì, lui era proprio lì, in quella postazione, da cui avrebbe potuto sparare e ordinare il fuoco. Nemmeno dopo la condanna ha mangiato la foglia intuendo il gioco che si stava giocando sulla sua pelle. Figurarsi se lo capirà ora che è un mezzo eroe nazionale, ricevuto in pompa magna dal Presidente in persona.
Gli assassini di Rocchelli hanno un nome. Sono impuniti, d’accordo: ma se fosse stata accertata la responsabilità di Markiv le cose starebbero in maniera poi tanto diversa? Chi porta le maggiori responsabilità sarebbe comunque al sicuro da ogni giustizia, né ci si poteva, ragionevolmente, attendere qualcosa di diverso. Abbiamo sempre saputo chi era il responsabile di questo delitto. Ora è scritto nero su bianco in una sentenza. Eppure, cosa è cambiato? Il nostro Governo, posto di fronte all’evidenza (giudizialmente accertata in due sedi) che un nostro concittadino è stato volontariamente ucciso dall’esercito ucraino, non è stato capace nemmeno di belare una timida protesta. Anzi, si è fatto lungamente bullizzare in silenzio da tipacci come Avakov e Gherashenko. Il ministero degli Esteri (non che sia peggio dei suoi predecessori…) ha altro a cui pensare: c’è da battere i pugni sul tavolo con la Russia, da fare la voce grossa e pretendere sanzioni per il “caso Navalny”.
La stampa liberale, che ha ignorato le colpe di Kiev nella guerra dandone resoconti faziosi e ingannevoli, si è rifatta la verginità sostenendo la colpevolezza di Markiv, e ora è pronta a sostenere la prossima “guerra umanitaria”. Chi pensava di fare del processo Markiv un’ordalia da cui far dipendere la verità storica, un grottesco derby calcistico, un’occasione per segnare, in sede giudiziaria, almeno un gol alla macchina della “propaganda atlantica”, ora pensa di aver perso la partita e si lagna dell’arbitro.
Tuttavia molte verità su quella guerra sono state scritte dai Giudici di Milano e di Pavia. Molte verità sono state, nel frattempo, scritte anche da altri giudici, nell’indifferenza generale. Ad esempio dalla Corte di Cassazione, che ha ripetutamente concesso lo status di rifugiato a cittadini ucraini obiettori di coscienza in quanto “appare plausibile la commissione di crimini di guerra in caso di prestazione da parte del ricorrente del servizio richiesto” (Cass. Civ. 30.031/19, Cass. Civ. 102/21). Chi si accontenta della verità, alla fine l’ha avuta.
di Marco Bordoni
L’autore cura la pagina “La mia Russia” su Telegram
Be First to Comment