Succedeva l’8 dicembre del 1991, in una dacia nella foresta di Belovezha, in Bielorussia. Boris Eltsin per la Repubblica russa, Leonid Kravchuk per quella ucraina e Stanislav Shushkevic per quella bielorussa proclamavano la fine dell’Unione Sovietica “come entità giuridica e politica”. Ma in realtà succede ogni giorno, perché la fine dell’URSS non è mai finita.
Sta dentro la fine dell’URSS la recente vittoria elettorale di Maia Sandu in Moldavia, decretata dai voti dei moldavi che risiedono all’estero e che vogliono portare il loro Paese il più lontano possibile dall’orbita di Mosca. Sta dentro l’Armenia, salvata da una guerra disastrosa dalla mediazione russa ma nello stesso tempo punita (Putin ha chiaramente fatto capire che non si sarebbe mosso per il Nagorno Karabakh) per aver vissuto una “rivoluzione di velluto” anti-Mosca, con le trasmissioni radio e Tv in russo proibite dal premier Pashinian.
C’è la fine dell’URSS negli spasmi di Aleksandr Lukashenko in Bielorussia, il Paese forse più ancorato all’eredità sovietica tra quelli diventati indipendenti. E c’era la fine dell’URSS e del suo “spazio vitale” nell’insurrezione di Maidan in Ucraina nel 2014. E prima ancora la Georgia nel 2008 e la Cecenia per tutti gli anni Novanta.
Putin dice spesso che la fine dell’URSS è stata “una grande tragedia geopolitica” e ha ragione, anche se a molti conviene farlo passare per un nostalgico dell’impero che fu. Sempre Putin dice che “chi non rimpiange l’URSS non ha cuore e chi vorrebbe risuscitarla non ha cervello”. E ha ragione anche qui. Chi invece non capisce che con quella fine bisogna ancora fare davvero i conti, e crede che si possa ridurre tutto nei termini di “abbiamo vinto noi”, “hanno perso loro”, non ha né cuore (perché questi decenni sono stati punteggiati di tragedie) né cervello.
Fulvio Scaglione
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