Mamma li Putin! Il Presidente della Federazione russa arriva in Italia per una visita lampo di dieci ore e subito si scatena l’immaginario di circostanza. Roma blindata, passa il dittatore, sarà venuto a chiederci di ritirare le sanzioni contro la Russia decise dagli Usa e dalla Ue… Nemmeno fosse arrivato il Saladino con le sue truppe cammellate.
In realtà non è difficile capire di che cosa possa aver parlato Putin con i suoi interlocutori romani. Con Papa Francesco (i due sono al terzo incontro, dopo quelli del novembre 2013 e del giugno 2015) di Siria e Medio Oriente, della guerra di cui la Russia è stata ed è protagonista e della situazione dei cristiani. Di Ucraina, anche, e della nascita (a fine 2018) della Chiesa ortodossa autocefala, fortemente voluta in chiave anti-russa dall’allora presidente Petro Poroshenko e benedetta dal patriarca ecumenico Bartolomeo. Una mossa che di certo Putin non ha gradito ma che, in un modo o nell’altro, ha complicato il delicato ma tenace lavoro che il Papa svolge da anni per una ricomposizione dei rapporti tra cattolici e ortodossi.
Con il presidente Mattarella e con il premier Conte si sarà parlato di Europa, di quella Ue che ha appena rinnovato le massime cariche e che con la Russia ha da anni, dopo la crisi ucraina del 2014, un rapporto conflittuale segnato, appunto, dalle sanzioni economiche. I russofobi possono smettere di preoccuparsi: non sarà certo questo Governo a spendere il veto italiano contro le sanzioni alla Russia. Siamo troppo legati agli Stati Uniti per pensarlo e siamo troppo deboli nella Ue (a sua volta pressata dagli americani) per permetterci di sfidare le altre 27 nazioni. Il sospirone per il mancato avvio della procedura d’infrazione fa capire benissimo che al momento non ci possiamo permettere un braccio di ferro, anche se le sanzioni penalizzano, e tanto, le nostre esportazioni.
Al Quirinale e a palazzo Chigi sarà risuonato il tema della Libia, dove Italia e Russia sono schierate su fronti opposti. Noi con il governo tripolino di Al Serraj, la Russia con il generale Haftar. Anzi: la Russia fornisce i pezzi di ricambio per i Mig di fabbricazione ancora sovietica con cui il Generale compie azioni come il bombardamento del campo per migranti di Tajoura (oltre 100 morti) che il vice-premier Salvini, in teoria pupillo di Mosca, ha definito “un crimine contro l’umanità”. E certo si sarà parlato di economia, di commercio, delle attività delle aziende italiane in Russia e degli investimenti del fondo sovrano russo nelle grandi imprese del nostro Paese.
Alla fin fine, nulla di straordinario, almeno per quanto riguarda l’Italia. I rapporti tra la Russia e il nostro Paese sono particolari almeno fin dal 1966, quando Vittorio Valletta volò a Mosca per firmare, a nome della Fiat, l’accordo per produrre automobili nella terra dei soviet. La vera chiave per leggere il viaggio italiano di Putin non sta nei retroscena, in quel che “c’è dietro”, ma in quel che c’è davanti.
Prima di sbarcare a Roma, il presidente russo aveva sparato il piccolo missile dell’intervista al Financial Times in cui definiva “sorpassato” il liberalismo e impotenti i suoi leader, “ che non possono imporre più nulla a nessuno”. Putin è troppo astuto per non sapere che il liberalismo è tutt’altro che morto e che, anzi, diversi dei Paesi che lo rappresentano godono di salute migliore della sua stessa Russia. Ma sa anche che non siamo più nei primi anni Novanta, quando si credeva che il modello liberale fosse l’unico possibile (infatti si parlava di “fine della storia”) e che tutti avrebbero prima o poi dovuto adeguarsi.
Con l’intervista, con la visita in Italia, con molti gesti e altrettante decisioni, Putin ci dice: occhio, ci siamo anche noi sul mercato della politica. Dovete parlare anche con noi. Abbiamo proposte serie da farvi. Siete sicuri di poterci snobbare? Con stile ruvido e diretto ha replicato il messaggio che ci aveva recapitato, in modo più morbido e insinuante, il presidente cinese Xi Jinping. Eccoci, abbiamo buone idee e molti soldi, volete farne parte? Sicuri che vi convenga rifiutare?
E’ il mondo plurale di oggi, quello in cui gli Usa sono ancora i più grandi e grossi ma non più gli unici. Il mondo in cui i Paesi come l’Italia, di calibro medio ma con buone carte (per esempio, la posizione strategica sul Mediterraneo), saranno sempre più spesso costretti a camminare sul filo di equilibrii complessi e alleanze delicate.
Fulvio Scaglione
Pubblicato in Eco di Bergamo, luglio 2019
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