di Aleksander Baunov Non sorprende che un certo segmento della popolazione russa abbia risposto in modo così energico all’incarcerazione di Aleksei Navalny, scendendo in piazza per due fine settimana di seguito prima che la squadra dell’oppositore decidesse di cambiare tattica. Tuttavia, alla fine, le proteste riguardavano meno la sorte di Navalny che i crescenti problemi socioeconomici e la frustrazione dei giovani russi e della classe media urbana, che sono stati schiacciati dalla stagnazione economica dal 2014. La domanda più interessante è se la squadra di Navalny possa capitalizzare questa crescente insoddisfazione o se le autorità riusciranno a incanalarla in direzioni meno minacciose.
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di Kadri Liik Tuttavia, paradossalmente, questa non è stata una “buona crisi” per Putin. Non si è distinto e non ne ha tratto beneficio. Una crisi che non consente l’eroismo, ma richiede pazienza e gestione diligente, non si addice a Putin o ai leader autoritari in generale. Il Covid 19 ha ribaltato gran parte dell’agenda di Putin per il 2020. Forse la domanda più interessante è se questo sia successo una o due volte. Forse la sontuosa celebrazione del 75 ° anniversario della fine della seconda guerra mondiale, prevista per maggio, era pensata fin dall’inizio come una specie di festa per l’incoronazione di Putin come potenziale leader della Russia per i prossimi 16 anni. Oppure può essere che il Covid 19, combinato con il calo dei prezzi del petrolio e una più ampia turbolenza nel mondo, abbia scompaginato i piani di Putin di ritagliarsi pian piano un ruolo di secondo piano in politica, spingendolo a cercare il modo di continuare a governare. Questa, almeno, è la spiegazione fornita dal suo portavoce, Dmitry Peskov, il quale ha affermato a marzo che Putin ha preso la decisione perché “la situazione nel mondo è diventata meno stabile”, citando la pandemia, i rischi di “recessione globale”, numerosi “acuti conflitti regionali “e le sanzioni occidentali.
di Fulvio Scaglione – E così Joe Biden ha invitato Svetlana Tikhanovskaja, la dissidente bielorussa che dall’esilio in Lituania si è autoproclamata vincitrice delle elezioni presidenziali e unica rappresentante del proprio Paese, alla cerimonia con cui, il 20 gennaio, farà l’ingresso alla Casa Bianca da Presidente. La cosa ha importanza soprattutto per ciò che fa presagire. Ovvero, una rinnovata pressione sulla Russia all’interno del cosiddetto “vicino estero”, quello che il Cremlino vorrebbe conservare come spazio riservato di influenza. Non è che la presidenza Trump, tra sanzioni crescenti e operazioni Nato ai confini, sia stata tenera con il Cremlino. Ma è facile prevedere che l’agenda clintobamiana di Biden punterà molto su diritti civili e democrazia per mettere in difficoltà la Russia, già descritta come “la più grande minaccia” alla sicurezza degli Stati Uniti. Altrettanto facile è prevedere l’altro pedale che la nuova amministrazione americana si troverà a pigiare, con l’aiuto di un consistente pacchetto di Stati della Ue: il gas russo, le forniture energetiche dalla Russia all’Europa.
Gli utenti del World Factbook della Cia, rispettabilissima fonte di dati e statistiche, hanno di certo notato che i servizi segreti americani definiscono la Russia “Asia Centrale” mentre l’Ucraina senza esitazioni viene chiamata “Europa”. Un piccolo assurdo geografico che cancella la Russia europea fino agli Urali, ovvero il 40% del territorio della Federazione dove peraltro vive il 60% dei 142 milioni di cittadini russi. Ma soprattutto un’agnizione e un ripudio, un giudizio politico per ammettere ed escludere. È buffo. E se non fosse il minuscolo ma inconfondibile segno di un dramma politico e culturale farebbe persino tenerezza, questo improvviso rigurgito di guerra fredda.