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UN NAVALNY NON FA PRIMAVERA

di Marco Bordoni   Domani (l’ha annunciato su Twitter) Navalny rientrerà in patria su un volo della compagnia low cost Pobeda. Possiamo tenerlo per certo: l’agitatore più amato dai Governi occidentali non può gettare la spugna dopo avere fissato la data del rientro e aver chiesto ai suoi sostenitori di venire ad accoglierlo all’aeroporto. Del resto (lo ha notato recentemente James Rodgers su Forbes), l’esilio dorato in Germania lo avrebbe, alla lunga, relegato all’irrilevanza ed all’oblio, una prospettiva inaccettabile per una personalità esuberante come quella di Alexej.

Cosa deve aspettarsi Navalny in Russia? Guai giudiziari e (forse) il carcere. Il Servizio penitenziario federale ha, infatti, annunciato che l’oppositore ha violato i termini della libertà condizionata concessagli nel 2014, quando fu condannato per frode nel processo “Yves Roches East”: non avrebbe comunicato tempestivamente alle autorità il suo trasferimento in Germania. Questa accusa (paradossale, se pensiamo che lo stesso Putin ha detto di avere autorizzato personalmente il suo espatrio) consentirebbe comunque alle autorità di trattenerlo per un massimo di 48 ore. Abbastanza da mandare a monte il programma da libro Cuore del blogger (“lunedi mattina accompagnerò a scuola mio figlio Zakhar”) ma non da metterlo definitivamente fuori gioco.

Più minacciosa la nuova accusa (frode aggravata) che il comitato investigativo ha notificato lo scorso 29 dicembre (prima udienza fissata al 29 gennaio). Navalny non sembra, comunque, spaventato dalla prospettiva di essere costretto a vedere, per un periodo più o meno lungo, il cielo a scacchi: l’accettazione del rischio, l’aspirazione al sacrificio personale è uno dei due tratti storici distintivi del dissenso russo, dai decabristi all’opposizione antisovietica. L’altro, l’autoreferenzialità (personalismo, infantilismo, disconnessione dalla società reale) è pure dominante nei circoli di opposizione radicale e consente una facile previsione: il crollo improvviso del sistema putiniano auspicato dai dissidenti non aprirebbe un’età dell’oro di prosperità e democrazia ma, in assenza di alternative credibili, spalancherebbe le porte ai demoni dell’anarchia.

La sorte di Navalny, dipenderà, comunque, non solo dagli automatismi processuali ma anche da Vladimir Putin, che si trova in mano una bella patata bollente. Ogni opzione sembra cattiva. Lasciare che le inchieste producano una prevedibile condanna facendo del blogger un martire? O mandarlo a piede libero a girare per la Russia? Il tipo ha buoni motivi (visti i precedenti…) per dubitare della protezione delle forze dell’ordine, e quindi si può ritenere che rifiuterebbe ogni offerta di protezione (che comunque le autorità sono tenute a fargli). Del resto, un Navalny senza scorta diventerebbe un bersaglio ambulante, obiettivo irresistibile per chiunque intenda centrare con un’altro siluro la nave in panne delle relazioni con la Germania o l’immagine internazionale, quasi altrettanto compromessa, del Presidente.

Qualunque sia la decisione del Cremlino, non saranno, comunque, né Navalny né gli altri beniamini del circo mediatico liberale a chiudere l’era di Putin. E, aggiungo, nemmeno le interferenze esterne. Beninteso: non che le denunce di intromissione del Cremlino siano totalmente campate in aria. Dal punto di vista degli avversari strategici della Russia un volo Pobeda per Vnukovo vale un treno blindato diretto alla Stazione Finlandia, il premio Nobel alla Alexievich, quello a Sacharov o quello a Solzhenicyn (non ne faccio, ovviamente, un punto di merito, ma di metodo). Piuttosto stupisce la progressione degli eventi, che punta chiaramente alle elezioni parlamentari russe del prossimo 19 settembre, già indicate dal solito canarino in miniera, Valery Solovey, come l’ “ora X” fissata per il Maidan russo. Il potere, da parte sua, si prepara all’ urto, con una raffica di leggi, varate gennaio, per rafforzare il controllo su ONG e agitatori e sui canali di propaganda online.

A tre anni dalla fine del mandato di Putin la tempistica potrebbe sembrare prematura, ma va anche detto che operazioni come quella di Navalny sono a costo quasi zero e replicabili all’infinito. Lanci il fiammifero nella polveriera. Se innesca bene. Se si spegne che avrai mai perso: un fiammifero appunto. Piuttosto bisognerebbe pensare, in caso di successo, al ritorno di fiamma e, in caso di fallimento, alla reazione del custode del deposito: ma non sono tempi propizi al pensiero strategico (e, in verità, al pensiero tout court).

Comunque la coraggiosa sfida o (se si preferisce) la perfida trama di Navalny e dei suoi sponsor occidentali possono essere tutt’al più occasioni, non cause, del successo o del fallimento della auspicata (o temuta) rivoluzione colorata in Russia. Tutto, infatti, dipende solo e soltanto dalla Russia stessa e dalla sua dirigenza. Non dobbiamo, quindi, chiederci, se l’attacco sia pericoloso (non lo è) ma se la cittadella sia salda.

Partiamo dall’ economia. La Russia è provata. La svalutazione della moneta, che da anni attutisce (in parte scaricandosi sui consumatori) le conseguenze del crollo del petrolio, è arrivata al limite. Secondo il famoso “indice Big Mac”, il rublo contende alla valuta libanese il dubbio primato di moneta più sottovalutata del mondo: se il cambio con il dollaro dovesse scendere molto sotto quota 70, le conseguenze si farebbero intollerabili non solo per la classe media che ha accesso ai prodotti di importazione (che certo non è al primo posto dei pensieri delle autorità), ma anche per l’uomo della strada che tira a campare e su cui poggia il consenso del Presidente.

Secondo Bloomberg, in Russia la recessione da Covid19 ha pesato meno che in quasi tutto il resto del mondo: merito in parte delle sanzioni, che hanno reso il Paese più resistente agli shock esterni, in parte delle misure di sostegno alla famiglia (che vanno alle fasce più disagiate che non le “congelano” nei conti correnti e quindi si traducono in uno stimolo immediato alla domanda interna), in parte anche della gestione light della quarantena, con il suo pesante tributo sanitario. Il problema, comunque, non è tanto il meno 3,8% di quest’ anno (quasi un miracolo, visto il crollo verticale del mercato delle materie prime energetiche), quanto il fatto che questa ennesima contrazione giunge al termine di una serie storica recente certo non brillante. Dopo il primo, ruggente, decennio del secolo la Russia ha conosciuto due recessioni (nel 2009 e nel 2015) e crescita lenta negli altri anni. Un ritmo insufficiente ad assicurare una diffusione uniforme della prosperità, a ridurre la povertà e a soddisfare le aspettative diffuse di convergenza con gli standard di vita dei Paesi più avanzati.

Uno strano mix di rigore finanziario, assistenzialismo e dirigismo statale è l’esito (non scontato) della parabola economica putiniana. Si tratta di una formula efficace per assicurare lo sviluppo e la modernizzazione della Russia? Su questa scommessa, più che sulle mattane di Navalny e sulle manfrine dei servizi occidentali si gioca il destino della Russia.

Ci sono poi, certamente, ambienti e personalità dell’apparato che temono di perdere influenza e posizioni alla resa dei conti della successione, evento che potrà aspettare anni, ma non decenni. Non mi riferisco solo all’opposizione liberale che, a differenza di quanto diffusamente ritenuto in Occidente, continua a presidiare in maniera significativa l’infosfera nazionale, con le testate apertamente critiche (Dozhd, Ekho Moskvi e Novaja Gazeta) ma anche con i pensatoi destinati alla élite economica (Kommersant e Vedomosti), e che ha (correttamente) letto la riforma costituzionale dell’anno scorso come il preludio alla marginalizzazione sua e dei suoi ceti di riferimento (in sintesi: gli abitanti dei centri storici delle due capitali). Ma, soprattutto, a pezzi ambiziosi o scontenti (per motivi non necessariamente ideali) dell’establishment attuale che possono aver infilato lo zampino in alcuni, recenti, incidenti, che hanno messo in grave imbarazzo l’inquilino del Cremlino (il caso Navalny, appunto, ma anche, prima, Skripal e Nemtsov), inciampi inspiegabili senza la manina di qualche insider.

E’ questa la miscela che Navalny e i suoi mittenti sperano di fare esplodere, senza curarsi troppo delle conseguenze (vedasi le primavere arabe, i cui architetti siedono ora alla Casa Bianca) o considerandole un rischio accettabile.

Le possibilità che questi tentativi vadano a segno appaiono, per il momento, remote. La direzione è piuttosto salda, il sistema ancora sufficientemente solido, e la recente riforma costituzionale ne certifica le ambizioni: sopravvivere al suo fondatore. La partita si deciderà, non domani ma, nel medio termine, sul terreno che ha sempre deciso tutte le scommesse in Russia: il successo o il fallimento della modernizzazione.

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One Comment

  1. Carlo Geneletti Carlo Geneletti 17 Gennaio 2021

    Le accuse dell’interferenza russa non sono campate in aria? Non ho ancora visto una prova che mi convinca. Che senso avrebbe avuto ammazzare Skripal, o Nemtsov — a due passi dal Cremlino come tutti i giornali “liberali” occidentali non mancano di ricordarci? E voglio credere che, se i servizi segreti avessero voluto ammazzare Navalny ci sarebbero riusciti. Adesso i nostri media ci dicono che essi sono talmente incompetenti, talmente inetti che non sono nemmeno capaci di farlo — e si sputtanano al telefono con Navalny stesso. Ma com’è possibile che lo siano, se Putin stesso ne è stato membro (nel senso che dovrebbe aver cura particolare per l’istituzione a cui è appartenuto)? E Russiagate è stata una montatura.

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