Un paio di mesi fa, un amico moscovita mi disse: “C’è movimento ai piani alti, si prepara qualcosa. Non so cosa ma avremo delle sorprese”. Onore al naso dell’esperto navigatore, dunque, perché tra il discorso di Vladimir Putin, l’annuncio delle riforme costituzionali, le dimissioni del Governo e la nomina del nuovo premier Mikhail Mishustin le sorprese davvero non sono mancate.
È chiaro che le novità che si preparano hanno un punto fermo: garantire a Putin un ruolo centrale nelle istituzioni russe anche per il futuro (ovvero dopo il 2024, quando scadrà il suo secondo consecutivo, e quarto in assoluto, mandato presidenziale). Nessuno poteva attendersi qualcosa di diverso. E pare che nemmeno tra i russi ci fosse un gran desiderio di sbarazzarsi di Putin visto che il gradimento del presidente (per esempio secondo le rilevazioni del Levada Center) era sul 70% ancora nel dicembre scorso. Basso rispetto all’88% del 2014, fiaccato dalle riforme impopolari (su tutte quella delle pensioni), ma non da licenziamento a furor di popolo.
Putin resterà al centro, quindi. Padre della patria, presidente dell’unione Russia-Belorussia, capo di partito, capo di un Consiglio di Stato rafforzato nelle competenze. Tutto questo non ha grande importanza, al momento. Visto che, tra l’altro, il 2024 non è esattamente dietro l’angolo. Meglio concentrarsi su altri due fattori, più significativi: il momento e il verso.
Perché proprio adesso? Perché Putin ha sentito la necessità di aprire il 2020 con quel colpo di scena, cioè di muoversi con tanto anticipo? E in che direzione andrà la Russia del putinocentrismo riformato? La nomina di Mikhail Mishustin dice molto sia dell’una sia dell’altra questione. Mishustin è un tecnocrate, un ingegnere informatico che ha cominciato la propria carriera a Mosca, nei primi anni Novanta, nel Club Internazionale del Computer, un’organizzazione che cercava di mettere in contatto le aziende tecnologiche occidentali con gli esperti e i funzionari statali russi. Mishustin aveva regolari rapporti con i manager di colossi come Intel, Hewlett-Packard, IBM, Motorola, Apple, e nel 1997 ebbe anche occasione di incontrare Bill Gates durante un forum organizzato dal Club di cui era intanto diventato vice-presidente.
Poi, come si sa, l’ingresso nell’apparato fiscale e la progressiva scalata fino al vertice, consolidato a suon di risultato: Mishustin ha informatizzato il sistema e l’ha trasformato, da quel baraccone corrotto che era, in una struttura moderna e funzionante. Tra il 2014 e il 2018 la riscossione dell’Iva è cresciuta del 64%, per fare un solo esempio.
Mishustin è grandemente stimato da Aleksej Kudrin che nel 2010, l’anno in cui il neo-premier arrivava al vertice del servizio fiscale, era il ministro delle Finanze. Kudrin è stato uno dei ministri più longevi della Russia post-sovietica, avendo retto le Finanze dal 2000 alla fine del 2011, e ha fama di liberale. Dal 2018 è presidente della Corte dei Conti della Federazione russa, il guardiano delle spese dello Stato. Di lui, in questa veste, ci siamo occupati in queste pagine già nell’agosto scorso. Kudrin, negli ultimi anni, è stato un instancabile critico della linea politica dominante: se l’è presa con il rapporto con l’Occidente, che a suo avviso va assolutamente pacificato per permettere all’economia russa un maggior respiro; ha pestato duro sulla riforma delle pensioni, con il relativo aumento dell’età pensionabile; e proprio durante il forum economico di San Pietroburgo, che da sempre è anche una vetrina del potere personale di Putin, ha chiesto la riforma radicale del sistema giudiziario, che considera una palla al piede per l’economia russa e per gli investimenti dall’estero.
Per non farsi mancare nulla, qualche mese fa Kudrin fece anche un accenno a una riforma radicale del sistema che, secondo lui, era allo studio di Putin. Che fosse proprio quella annunciata qualche giorno fa? Kudrin è stato tra i primissimi a congratularsi con Mishustin, per di più con parole significative: “Il cambio di governo rafforza la speranza che la nuova squadra sia in grado di fare di più per l’economia” e soprattutto “il nuovo premier sa come bilanciare gli interessi del business e dello Stato”.
Sembra dunque che al governo della Russia stia per arrivare un gruppo di uomini più attenti al business e ai bilanci, convinti che la modernizzazione economica del Paese (ancora troppo dipendente dalla vendita di gas e petrolio) vada accelerata e che questo obiettivo non possa essere raggiunto in una condizione di conflitto permanente con l’Occidente. Sono i portavoce di una contestazione che viaggia sotto la pelle del sistema economico-istituzionale russo e che è viva soprattutto tra i grandi e piccoli imprenditori, quelli che nel primo quadrimestre 2019, per fare un esempio, hanno portato all’estero quasi 35 miliardi di dollari, in pratica il doppio dello stesso quadrimestre del 2018. Sono quelli che non credono nella dedollarizzazione dell’economia russa, che vorrebbero in Russia un ambiente più favorevole al business e agli investimenti dall’estero (da qui il riferimento di Kudrin al sistema giudiziario) e all’estero porte aperte agli investimenti russi, senza sanzioni o barriere. Si può chiamarli oligarchi, imprenditori, liberali, realisti. Spesso è difficile distinguere, peraltro.
Se tutto questo è vero, la cosa notevole diventa è che a portarli al governo sia stato lo stesso Putin. Forse perché avverte la sclerosi del sistema, ormai peraltro evidente. Perché il calo del consenso (che salva lui ma travolge il governo) è ormai preoccupante, anche se nell’ultima tornata di elezioni regionali tutti i governatorati in ballo sono andati ai candidati del partito putiniano. Perché le contestazioni di piazza nelle grandi città non possono più essere sottovalutate. Perché per il Cremlino gestire tutte le sfide, interne ed estere, in cui la Russia si è impegnata diventa sempre più difficile. E dunque non si poteva più attendere, men che meno avvicinarsi troppo alla scadenza del 2024. I prossimi mesi chiariranno tutto.
Fulvio Scaglione
articolo pubblicato in InsideOver del 20.1.2020
Be First to Comment