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AGRICOLTURA RUSSA, DALL’IZBA ALLA HOLDING

di Fulvio Scaglione – Una cosa russa che più russa non si può, ovvero piena di contraddizioni e sorprese, è l’agricoltura. Il 30% della popolazione rurale non dispone di strade asfaltate; il 45% non dispone di acqua sicuramente sana e potabile; solo il 5% dei contadini ha accesso a vere fognature, un dato oggi uguale a quello del 1990. Ma l’esportazione di prodotti agricoli e generi alimentari nel 2019 ha portato alla Federazione 25 miliardi di dollari, più dell’industria degli armamenti; i contadini russi producono il 13% di tutto il grano commerciato nel mondo e il 23% di tutti i cereali commerciati nel mondo. Un condizione che a volte attrae ironie ma pone a chi governa il Paese questioni di non poco conto.

Il crudo elenco dei dati basta a farci capire che l’agricoltura russa è sempre più fondamentale per gli assetti economici della Russia (oltre che per quelli ambientali, come vedremo) e che, proprio perché tale, è chiamata a scelte importanti e certo non indolori. Secondo i dati della Banca Mondiale, i terreni coltivati in Russia occupano circa 215 milioni di ettari, con il 53% di tale superficie coltivato a grano. Tra i primi anni Duemila e la fine del 2019, i raccolti sono cresciuti del 32,4%. Ma, dicono gli esperti, grazie a una strategia di allargamento delle coltivazioni e di sfruttamento intensivo dei suoli. In condizioni che possono essere paragonate a quelle degli Usa, del Canada e dell’Argentina, l’agricoltura russa sconta però un notevole ritardo nell’efficienza. La produzione per ettaro è di un 10% inferiore alla media mondiale. Peggio in altri settori: la produzione di latte, a parità di condizioni, è il 50% di quella dei Paesi europei e il 40% di quella degli Usa. Nella produzione di carne siamo al 50% rispetto ai Paesi europei.

La bassa redditività per ettaro, peraltro, si accompagna a un preoccupante degrado dei suoli. Secondo Agroinvestor, la rivista russa specializzata nei temi dell’agricoltura, ogni anno vanno persi 2 milioni di terreni agricoli a causa delle monoculture, dell’uso di pesticidi e della scarsa fertilizzazione. E, come sottolineano Alla Yakupova e Hannes Lorenzen nelle loro analisi sul tema, il Governo centrale non ha ancora varato alcun programma nazionale per il recupero delle terre esauste. L’intento, invece, pare essere soprattutto quello di aumentare ancora la produzione e soprattutto incentivare l’esportazione, con l’obiettivo non poco ambizioso di incassare 45 miliardi di dollari attraverso le vendite all’estero nel 2024.  Questo, almeno, è ciò che si deduce dalla Dottrina per la sicurezza alimentare che il presidente Putin ha firmato nel gennaio di quest’anno per sostituire quella precedente, che risaliva al 2010.

Intanto il settore ha affrontato a tappe forzate una ristrutturazione interna dettata da un forte processo di concentrazione. Oggi 56 grandi compagnie dominano l’agricoltura russa, con 5 società che controllano il 27% delle terre coltivabili. Una tendenza che, nel complesso, ha prodotto un esito positivo. L’arrivo delle grandi compagnie ha permesso una modernizzazione delle tecniche e delle strutture, ma non ha soffocato le aziende familiari, sostenute dall’abbondanza di terra agricola a basso prezzo nel Paese e dalle politiche governative di ripopolamento, proprio attraverso l’agricoltura, delle aree poco abitate, soprattutto nell’Est del Paese.

Tale ristrutturazione e modernizzazione ha sfruttato anche un altro impulso: quello delle sanzioni economiche decise contro la Russia dal 2014 in poi. Di fatto, l’Occidente si è ritirato da un mercato, quello agricolo russo, estremamente ricco di potenzialità e con larghi margini di crescita in pratica ancora sconosciuti. Nel 2017, mentre gli investitori occidentali riducevano il loro impegno nell’agricoltura russa, la Cina lo aumentava di 3,5 volte. E su una strada simile si sono messi altri Paesi dell’Asia e del Medio Oriente.

Sono Paesi grandi e piccoli, ma accomunati da un’esigenza: ottenere la sicurezza alimentare e trovare fonti di approvvigionamento nuove e più convenienti rispetto a quelle tradizionali. La Russia, da questo punto di vista, è perfetta, visto che per le esigenze interne consuma solo il 20% di quanto produce. L’espansione su mercati con quelle caratteristiche, però, può costituire anche una forma di condizionamento per l’agricoltura russa. In altre parole, può spingerla ancora più avanti nella strategia di allargamento delle terre coltivate e di sfruttamento intensivo dei terreni, per ottenere produzioni sempre più vaste ed economiche, quindi competitive sui mercati internazionali. E far diventare così la Russia un player influente sulle strategia alimentari globali.

C’è chi si chiede, però, se non sarebbe il caso di lavorare di più sul food, ovvero sui prodotti lavorati, per ottenere maggiore valore aggiunto e, intanto, sottrarsi alle insidie e ai ricatti delle sanzioni economiche imposte dall’estero. In ogni caso è cambiato tutto da quando, nel 1985, l’economista Lev Timofeev pubblicò in Occidente “L’arte del contadino di far la fame”, una durissima condanna del sistema economico sovietico. Timofeev fu processato e condannato a 11 anni di campo di lavoro ed esilio interno per “propaganda antisovietica”. Liberato nel 1987 da Mikhail Gorbaciov con un apposito decreto, Timofeev divenne uno dei più accesi sostenitori della liberalizzazione economica. Oggi, a 84 anni, si è ritirato dalla politica e si è dato alla letteratura. Chissà che direbbe di ciò che sono diventati i contadini e l’agricoltura russa.

Fulvio Scaglione

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