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di Fulvio Scaglione – Bastava osservare la composizione della delegazione russa per capire quanta importanza il Cremlino abbia dato a questa ennesima visita di Vladimir Putin in Cina. Diversi vice premier e molti ministri ma su tutte quattro figure di spicco, due new entry e due veterani. Il neo primo vice premier Manturov, già ministro dell’Industria e del Commercio, e il neo ministro della Difesa, l’economista Belousov da un lato; dall’altro l’inossidabile ministro degli Esteri Lavrov, in quel posto da vent’anni, e l’indispensabile Elvira Nabiullina, dal 2013 governatrice della Banca centrale di Russia. Basta questo dato a far capire due cose. Putin sta superando la fase in cui l’imperativo fondamentale era resistere alle sanzioni e finanziare la guerra e cerca di attrezzarsi per muoversi al meglio in quel mondo nuovo che lui stesso, con l’invasione dell’Ucraina, ha contribuito a definire. E in questo mondo, la relazione tra Russia e Cina e delle due con l’Asia sta diventando essenziale.
Arrivati al decimo mese di guerra in Ucraina dopo l’invasione russa, gli spiriti di buona volontà che sperano di bloccare questo massacro assurdo si trovano ad affrontare un grosso errore, che sta in questo: non si può, anzi non si deve parlare di colloqui «di pace». Chi lo fa, o finge un’aspirazione alla pace che non ha o non si rende conto che il massimo ora raggiungibile è un cessate il fuoco. La pace sarà un lavoro molto più lungo e complicato. La questione tra Russia e Ucraina ha radici assai lunghe di cui la guerra è, solo e purtroppo, il culmine. Dipanare la matassa per arrivare a una pace vorrà dire analizzare e rimontare i trent’anni trascorsi dalla fine dell’Urss e sarà un lavoro improbo. Il grosso errore, però, sta dentro un’enorme ipocrisia: quella di parlare di pace ponendo condizioni che, di fatto, la rendono impossibile. È successo esattamente questo nei giorni scorsi, con le dichiarazioni incrociate di Joe Biden, Emmanuel Macron e Vladimir Putin.