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LUBYANKA, PROVE TECNICHE DI SUCCESSIONE

di Marco Bordoni     Con Navalny ormai sistemato nella colonia Penale n. 2 di Pokrovskaja e i suoi sostenitori alla prese con una serie di efficaci misure repressive, il dibattito
politico moscovita si anima in una curiosa drôle de guerre: come occupare la grande
Piazza Lubyanka, nel centro della capitale, a cinque minuti di passeggiata dal Teatro
Bolshoj, dieci dalla Piazza Rossa?


Non un posto qualunque: sulla piazza incombe infatti, a Nord-Est, il grande palazzo
ottocentesco già sede, nel crepuscolo degli zar, della compagnia di assicurazioni
Rossija e poi, dopo la rivoluzione, dei servizi di sicurezza sovietici. Oggi ci sta l’FSB:
il luogo, nell’immaginario di due generazioni di dissidenti, è il simbolo della
repressione del dissenso politico. Almeno per i maggiorenni: infatti sulla stessa
piazza Lubyanka, più verso il Teatro, affaccia un altro imponente edificio, espressione di un più dolce autoritarismo: quello dei piccoli moscoviti, che costringono i genitori a
dissanguarsi nei corridoi luccicanti di Detskj Mir, il centro commerciale per bambini
più grande d’Europa.

Dicevamo, la Lubyanka: un luogo che ha prodotto tanta storia e che continua a
produrre cronaca. Il 9 novembre 2015 l’“artista” Piotr Pavlensky, icona liberal, venne
ad appiccare fuoco ai portoni dell’edificio. La vicenda ebbe un seguito umoristico:
espatriato in Francia (con tanto di asilo politico, al riparo dalla “persecuzione
putiniana”), Pavlensky ha continuato la sua attività artistica all’ombra della Tour
Eiffel, fra piccoli furti, scandali politici a sfondo sessuale, tentativi di dar fuoco alla
Banca di Francia. Le autorità francesi hanno dimostrato la stessa mancanza di
sensibilità estetica di quelle russe: Petya si è beccato una condanna a 3 anni. Nel
frattempo, il 19 dicembre 2019, mentre i vertici dei servizi russi festeggiavano,
assieme a Putin, l’anniversario della fondazione della polizia politica sovietica, un
kamikaze ha tentato un assalto al palazzo dei servizi segreti, seminando il panico fra i
passanti affaccendati nello shopping natalizio. Composizione del commando (un
uomo solo o tre, come appare in diversi video?), finalità dell’operazione, implicazioni politiche: è tutto stato avvolto velocemente da un velo di conveniente riservatezza.

Insomma, un luogo simbolico, la Lubyanka, come in tutta la Russia ce ne sono pochi. Un simbolo incompleto. Il grande piazzale davanti alla sede del Servizio Federale di Sicurezza, infatti, è deserto dal 22 agosto 1991, quando la folla abbatté, dopo il “golpe di agosto” sventato da Eltsin, una statua alta sei metri (senza piedistallo) e pesante 11 tonnellate: quella del fondatore della Ceka, Feliks Dzerzhinskj. Le foto dei manifestanti sul piedistallo mozzato  della Lubyanka ricordano le tante analoghe scattate in tante analoghe occasioni, nei tanti analoghi momenti di vittoriosa “esportazione della democrazia” vissuti dalla nostra generazione. A distanza di decenni trasmettono ancora l’emozione liberatoria dell’atto rivoluzionario e la vertigine di un futuro incerto e tutto da inventare. Erano gli anni Novanta, e qualcuno poteva scrivere, senza temere lanci di ortaggi, che la storia si era conclusa con il definitivo trionfo del parlamentarismo liberale. Da allora Felix sonnecchia placido dall’ altra parte della Moscova, assieme a Stalin e Gorki, nel Park Muzeon che ospita le statue di epoca
sovietica. Meditando riscossa.

Polizia, repressione, terrore rosso: queste le associazioni che normalmente evoca il
nome di Dzerzhinskj alle nostre longitudini. Ma ai russi, specialmente ai russi che
rimpiangono l’URSS (sono due terzi) la storia dice anche altro. A partire dal celebre
motto “cuore caldo, mente fredda, mani pulite”, lo slogan del cekista coniato da
Feliks Edmundovich, il “cavaliere della rivoluzione” (Stalin dixit) che evoca un
passato duro, ma più giusto e più rigoroso. Pur responsabile della dura repressione
interna ordinata da Lenin nel corso della guerra civile (e della soppressione, spesso
fisica degli esponenti dell’ “opposizione borghese”), Dzerzhinskj conserva presso il
pubblico un’immagine niente affatto sulfurea come quella dei sui colleghi che, nel
decennio successivo, misero in scena le grandi purghe: Berja, Ezhov e Jagoda.

Stroncato da un infarto nel 1926, Feliks “di ferro” non fece a tempo a vedere lo
stalinismo trionfante: la sua opera di repressione, nel clima di violenza diffusa della
guerra civile, è dunque addebito mitigato dalla fama intatta di uomo moderato ed
ostile agli eccessi, di lavoratore ascetico, quasi monastico, integralmente dedito alla
causa della giustizia sociale e delle rivoluzione (cogliete quella venatura di “lotta alla
casta” che piace al pubblico di tutti i Paesi?). Da ministro degli Interni, inoltre, pose
mano, energicamente come suo solito, alla catastrofe sociale degli orfani della
guerra. Migliaia, forse milioni, di bambini abbandonati alla fame, alle epidemie ed
alla violenza, in una parola a una morte quasi certa nella società collassata degli
anni Venti, ospitati nella grande rete di opere per orfani organizzata proprio da
Dzerzinsky.

Insomma, il capo della Ceka ha ancora un posto nel cuore di molti Russi, e i tentativi di riportare la sua statua in Piazza Lubyanka a opera dei (letteralmente) “nipotini di Stalin” sono stati tanti, tutti però stoppati dai liberali. Il mese scorso però è salito alla ribalta un nuovo attore: Zakhar Prilepin, uno dei protagonisti del progetto Per la Verità un neonato partito politico confluito poi in Russia Giusta di Sergej Mironov.

In assoluto Russia Giusta non è una novità, anzi, è una presenza ormai consolidata nel panorama politico russo. Nato nel 2006 nell’ambito del progetto “democrazia sovrana” di Surkov, il partito doveva formare un argine “di sistema” asciugando l’acqua del dissenso in cui nuotavano i comunisti. Svolta la propria funzione, e fiaccata in modo decisivo la forza degli uomini di Zyuganov, Russia Giusta si era poi trovata a dover definire la propria identità,
finendo per intrecciare una relazione pericolosa con le proteste del 2011-2012, errore
che le costò un lungo periodo di marginalizzazione mediatica e politica. Oggi, dopo
un decennio di purgatorio, Mironov ha l’occasione di tornare in serie A. L’appuntamento elettorale di settembre incombe, i sondaggi mostrano un affanno sempre più evidente del partito dell’establishment, Russia Unita, e la creatura di Mironov diventa di nuovo un’opzione interessante nelle mani degli strateghi del Cremlino.

Nel frattempo sono arrivate nuove energie, fra cui quella di Prilepin, regista, attore, scrittore, combattente nel Donbass, che ha dato al partito un tono anticapitalistico, di nostalgia sovietica e di patriottismo socialista e che ha fiutato nella diatriba sul monumento della Lubyanka il palcoscenico perfetto per una promozione gratuita. La questione è stata portata alla Camera Pubblica della Città di Mosca, un organismo senza poteri legislativi, il cui vice presidente è il pittoresco Aleksej Venediktov, giornalista liberale di lungo corso, con buone entrature al Cremlino, editore e capo redattore della radio Eco di Mosca, e del giornale Diletant, pubblicazioni ultra liberali. Venediktov, risoluto a impedire a ogni costo il ritorno di Feliks di ferro, ha pilotato abilmente la discussione alla Camera Pubblica, ed ha fatto sì che la questione venisse sottoposta al pubblico in un referendum consultivo, nel quale i Moscoviti avrebbero potuto esprimere la propria preferenza fra il ceckista e Aleksandr Nevsky. Strategia assai astuta.

Nevsky, acerrimo nemico dei crociati occidentali e leale vassallo dell’Impero Mongolo, non è certo un’opzione scontata, per un liberale moscovita. E tuttavia la sua figura remota, universalmente riverita, ipostatizzata, ha funzionato da catalizzatore su cui far convergere le preferenze di anticomunisti di estrazioni anche molto diverse (da Venediktov ai clericali, dai giornaloni finanziari all’arruffapopolo ultra nazionalista Zhirinovsky).

Per un paio di giorni, dunque, in questo teatro di cartapesta (un referendum consultivo organizzato da un organismo parimenti consultivo) si è svolto un interessante esperimento sociologico politico. Sulle nuove piattaforme di dibattito virtuale (Telegram e Clubhouse, principalmente) si è accesa una discussione dall’esito incerto e dai contorni inconsueti. In primo piano da un lato Prilepin e i militanti di “per la verità”, i comunisti (che pure dall’odierna dorsale di potere ricevono attenzioni non certo lusinghiere) e opinionisti conservatori come il presentatore Solovyiov. Dall’altro Venediktov con l’Eco di Mosca, e la rete di attivisti già collaudata nella promozione delle manifestazioni per Navalny.

Dietro, sullo sfondo, un altro contrasto. I cekisti, gli uomini della dorsale di potere,
magari pensano di meritare un riconoscimento formale per aver “salvato la Russia”
dopo i burrascosi anni Novanta. Cosa meglio di un bel monumento al fondatore, sulla Lubyanka, una piazza centrale della capitale? La Chiesa ha avuto il suo: Vladimir il Santo, lo zar che battezzò la Rus’, troneggia dal 4 novembre 2016 davanti alla Torre
Borovichkaja, il vertice Sud-Ovest del triangolo del Cremlino. Poco più in là, la
grottesca statua di Pietro, tuffata con tanto di galeone nella Moscova (in mancanza
di mare), celebra in maniera adeguata la stagione degli occidentalisti (era il 1997:
solo in quegli anni folli era pensabile che Mosca onorasse così il monarca che l’aveva marginalizzata per 200 anni). Il mercante Minin e l’aristocratico Pozharskij in
improbabili pose neoclassiche, hanno pure il loro posto sulla Piazza Rossa, come i resti
mortali del più celebre rivoluzionario del mondo. Mancano, all’appello, solo loro: i
siloviki, gli sbirri, gli uomini dal cuore caldo e dalla mente fredda.

Ma anche chi non vuole il ritorno di Feliks in Piazza Lubyanka ha dei santi in
Paradiso. Un fronte che avevamo già visto mobilitato per il caso del giornalista Ivan
Golunov. Quindi non tanto clericali e nazionalisti che vedono il comunismo come
fumo negli occhi e che forniscono massa di manovra, ma la cosiddetta società civile,
il ceto medio urbano, e soprattutto la gente con i bei soldoni, quelli che una volta si
chiamavano oligarchi, che tollerano male il dirigismo statale, le sanzioni occidentali,
e quei pur modesti rivoli di assistenzialismo che Putin deve fare sgocciolare sulla
società per conservare un minimo di coesione. Gente a cui non piace per nulla la
prospettiva di piazzare nelle vie dello shopping una statua a un rivoluzionario che
passava sommariamente per le armi i borghesi. Non si spendono, ovviamente, in
prima persona: mandano avanti quelli preoccupati per i diritti civili.

Insomma: bojari contro opričniki, nobiltà di sangue contro dvorjane. Liberali e
uomini d’ ordine tenuti assieme fino ad oggi da Putin, che è stato entrambe le cose,
e che iniziano ad agitarsi in attesa che l’apertura della successione chiami il liberi
tutti. Il voto online si è aperto il 25: Nevsky e Dzerzhinsky sono rimasti appaiati fino alla
mattina del 26. Poi Nevsky è schizzato in alto in modo strano (quando, secondo
Prilepin, sono arrivate le “truppe cammellate” degli impiegati comunali,
opportunamente sensibilizzate dal sindaco Sobyanin). Il quale sindaco, lo stesso
giorno, ha fischiato la fine anticipata dell’incontro, dicendo (secondo un copione
probabilmente concordato con i liberali) che i monumenti devono unire e non
dividere e che la piazza Lubyanka, per il momento, sarebbe rimasta com’è.

In quel momento Nevsky conduceva con 173.000 contro 143.000. Il che, secondo i promotori del ritorno di Dzerzinskj, non dimostra nulla se non che il Sindaco ha barato. La vicenda, che di per sé non ha nessuna rilevanza, è interessante in prospettiva. Se tante energie si mobilitano per una medaglia di cartapesta, cosa potrà succedere il giorno in cui l’uscita di scena di Putin dovesse aprire le danze di una vera lotta di potere? Sempre più, con l’ avvicinarsi del fatale 2024, lo zar sembra prigioniero del proprio trono. Il monito lanciato da Karamzin ad Alessandro, “tu puoi tutto, ma non puoi legittimamente ridurre il tuo potere”, risuona ancora nei corridoi del Cremlino.

di Marco Bordoni

fondatore e animatore del canale Telegram “La mia Russia”

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